domenica 31 luglio 2016

Ponte di Gaiola.da roba da da donne /dire donne

Ponte di Gaiola, Napoli, Italia

Foto: web
Foto: web
Come dicevamo?
Vedi Napoli e poi muori.
E l’isola della Gaiola, una delle isole minori del capoluogo campano, che si erge davanti a Posillipo, è sicuramente uno dei motivi per cui Napoli è così affascinante.
Lo spettacolo è unico: due piccole isole unite tra loro da un antico ponte, che ricrea un paesaggio pittoresco.

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Roba da Donne

storia della prostituzione fonte focus,it

Storia della prostituzione

Quando è nata la prostituzione? Dove? Perché? Le professioniste dell’amore sono presenti in ogni epoca, ma con ruoli e status sociale sempre diversi e spesso sorprendenti.

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Affreschi in un postribolo di Pompei.

Etèra, meretrix, cortigiana, fille galante, mantenuta, lucciola, bella di giorno, puttana... e l’elenco potrebbe continuare, fino alle escort e alle sex workers di oggi. È comunque quello che, con un eufemismo e molta maschile arroganza, chiamiamo il più antico mestiere del mondo.

Ma lo è per davvero? In realtà no, perché il concetto di prostituzione implica un contesto di rapporti economici e culturali che è estraneo all’uomo primitivo.

Osservando le nostre cugine scimmie si è portati però a credere che la prostituzione abbia, in un certo senso, basi biologiche. Fra gli scimpanzé pigmei dell’Africa Centrale, per esempio, le femmine si concedono ai maschi in cambio di frutti e altre leccornie. Perché lo fanno? Dovendo sostenere per anni il mantenimento di cuccioli, la natura impone loro di selezionare maschi che “pagano”, cioè aiutano a mantenere i piccoli. E i doni finiscono per essere desiderati da queste scimmie anche in assenza di piccoli da mantenere.

Cacciatrice di uomini. La prostituzione umana ha però radici diverse. Ai tempi dell’uomo preistorico la coppia era probabilmente a termine (ai 6-7 anni di età, i figli passavano sotto il controllo della tribù) e, secondo gli antropologi, nel sesso anche la donna era “cacciatrice”.

Solo con lo sviluppo dell’agricoltura e il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, circa 10 mila anni fa, nacquero, con la coppia stabile, la divisione fra sessualità maschile e femminile e, contemporaneamente, una divaricazione nel destino sociale delle donne.

Il motivo fu in effetti soprattutto economico: per difendere e tramandare la proprietà privata (nata appunto con l’agricoltura) ai propri figli maschi, la paternità doveva essere certa. Quindi diventava necessario imbrigliare la sessualità della “moglie”, limitandone le relazioni sociali al di fuori della famiglia. È a quel punto che, per soddisfare la richiesta sessuale dei maschi non accoppiati e le “eccedenze” di sessualità di quelli già accoppiati, nacquero le prime forme di prostituzione femminile, che da una parte non mettevano a repentaglio la famiglia e dall'altra permettevano la sopravvivenza di molte donne sole.

Sesso sacro. In origine alla prostituzione si dedicavano le schiave, le giovani sterili o le vedove senza protezione, ma c'erano anche culti che la incoraggiavano (anche quella maschile) e sacerdotesse che diventavano prostitute sacre (vedi notizia).

L’istituzione delle prime case di tolleranza si fa invece risalire al padre della democrazia: Solone, il riformatore di Atene (VI sec. a. C.). Nella società ateniese, la vita sessuale maschile era a due facce: una privata, orientata verso le donne, di cui però si pensava non valesse la pena di parlare; l’altra pubblica, orientata verso i ragazzi. La disparità dei prezzi (vedi la gallery Millenni di sesso e soldi, più sotto) fa capire che vi erano diversi mercati sessuali per clientele diverse e con funzioni sociali diverse.

Al livello più basso vi erano le pornai dei bordelli pubblici, schiave appartenenti a un custode, il pornoboskos, che era tenuto a pagare una tassa sulla rendita delle sue dipendenti a un funzionario statale che si fregiava del titolo di pornotelones. Appena un gradino più in alto vi erano le prostitute da strada: potevano essere donne libere ma povere, oppure schiave.

Gli archeologi hanno ritrovato un sandalo disegnato in modo da lasciare impressa nella polvere la parola greca akolouthi (seguimi). Le danzatrici e le suonatrici che provvedevano a procurare l’indispensabile intrattenimento durante i banchetti erano un po’ più care.

Vi erano poi le etère, collocate sul gradino più alto della scala: alcune offrivano i loro favori a chiunque, altre a clienti fissi che però tenevano nascosti uno all’altro. Anche i filosofi frequentavano le etère; molte entravano nella scuola di Epicuro, anche come studentesse, e lo stesso Socrate si intrattenne varie volte con Aspasia.


Fornicare sotto gli archi. Parente dell’etèra greca era nell’antica Roma la raffinata meretrix, mentre il popolo frequentava le prostitute dei lupanari, le lupae appunto. Nei bordelli (postribula) si incontravano schiavi, artigiani, soldati e marinai. L’élite, che aveva schiave in abbondanza per i propri piaceri, disprezzava quei posti. Luoghi di prostituzione erano taverne, bagni, terme (ad stuphas), le osterie con alloggio situate lungo le grandi vie romane, e sotto gli archi (fornices, da cui deriva il nostro verbo fornicare) dei principali edifici pubblici cittadini.

Le prostitute di basso rango erano, per la maggior parte, di proprietà di un leno, padrone di schiavi, mezzano e protettore (assistito da un servo detto villicus puellarum) che rastrellava l’intero bacino del Mediterraneo alla ricerca di ragazze e bambini da vendere sulla piazza del sesso a pagamento.

Accanto alla prostituzione femminile era infatti diffusa anche quella infantile, finché non fu proibita da un editto di Domiziano (fine I sec. d. C.). «Nessuno ti impedisce di andare dai prosseneti (mezzani)», esclama un personaggio di Plauto, «a patto che tu non tocchi una donna sposata, una vedova, una vergine, una giovane o dei fanciulli di nascita libera, ama chi vuoi!»

E Catone il Censore si felicita così con un amico incontrato all’uscita di un lupanare: «Bravo! È qui che i giovani devono soddisfare i loro ardori, piuttosto che attaccarsi alle donne sposate!»


Banchetto con etère nell'antica Grecia: gli amanti erano ostentati, le amanti nascoste.

32 mila prostitute. I Greci avevano un magistrato addetto al controllo della prostituzione, mentre a Roma esisteva un “tribunale domestico” che vegliava sulla condotta di 32 mila prostitute. Durante l’impero divennero un capro espiatorio della crisi e furono oggetto di leggi speciali. Caligola (che pure aveva fatto aprire un bordello a corte) tassò le prostitute con il vectigal (abolito in seguito da Settimio Severo), Domiziano tolse loro il diritto di successione, Teodosio il Giovane soppresse i lupanari e punì con pene severissime i genitori che costringevano le figlie a prostituirsi. Giustiniano infierì su lenoni e tenutari, mandandone a morte alcuni, e introdusse protezioni per le prostitute che intendevano cambiare vita. La sua stessa moglie,Teodora, secondo lo storico Procopio di Cesarea, avrebbe esercitato in gioventù il meretricio.
 )

Condanna col fuoco. Presso i barbari sembra che la prostituzione fosse meno diffusa. Ma Teodorico, re degli Ostrogoti, decretò la pena di morte per coloro che accoglievano presso di sé “donne infami”. Pene severe contro il commercio del corpo furono emanate anche da Carlo Magno e dai suoi successori: per esempio, percorrere per 40 giorni la campagna, nuda fino alla cintola, con il motivo della condanna scritto in fronte con un ferro rovente. A partire dalla metà del XIII sec., col fiorire delle attività mercantili, la cura dei postriboli divenne anche motivo di propaganda politica: era simbolo dell’efficienza dello Stato.

Molte prostitute si spostavano secondo il calendario di fiere, mercati, pellegrinaggi, concili. Oppure accompagnavano gli eserciti (consuetudine tramandatasi fino a epoche recenti: si pensi alle francesi putaines de regiment della Prima guerra mondiale), compresi quelli crociati. Quando re Luigi IX di Francia proibì ai suoi uomini di portarsele dietro (VI e VII crociata), essi rimediarono con schiave musulmane.

Nel 1400 la paura dello spopolamento dovuto a guerre ed epidemie fu all’origine, indirettamente, delle fortune del meretricio. Secondo le autorità civili era infatti necessario convincere molti giovani, distratti dai “crimini contro natura” (sodomia e masturbazione), a riscoprire le gioie dell’accoppiamento eterosessuale come viatico per il matrimonio e la procreazione.

Il Rinascimento vide affermarsi la cortigiana (così chiamata perché seguiva le corti), che ricalcava la figura dell’etèra greca. Le meretrices honestae possedevano un’educazione raffinata e nelle loro dimore passavano cardinali, artisti, nobili e re. Ma «per una che riesce ad acquistarsi delle terre al sole», scrisse Pietro Aretino nel 1536, «ce ne sono mille che finiscono i loro giorni in un ospizio».


Una foto alle pareti di una casa di appuntamenti degli Anni '30: serviva ad accendere le fantasie dei clienti.
Le regole di Napoleone. L’atteggiamento della società verso le prostitute mutò quando in Europa si diffuse la sifilide, considerata un castigo divino, e prese avvio il vasto movimento di moralizzazione promosso da Riforma e Controriforma.

I postriboli vennero chiusi, le prostitute sottoposte a pesanti imposizioni fiscali e si tentò di relegarle in quartieri-ghetto. Tolleranza e repressione si alternarono nel corso dei secoli. Fino a Napoleone, fondatore della moderna regolamentazione delle case di tolleranza (passate sotto controllo dello Stato nel 1804; l’Italia ne seguì l’esempio col regio decreto del 15 febbraio 1860).

10 anni di battaglie. Sempre nell’800 prese piede la casa d’appuntamenti, dove l’incontro fra cliente e prostituta si accompagnava a una parvenza di seduzione. È del 1904 il primo accordo internazionale contro lo sfruttamento della prostituzione, del 1910 la convenzione per la repressione della cosiddetta “tratta della bianche”.

Nella Russia dei soviet la prostituzione, considerata vergognoso retaggio dello “sfruttamento capitalistico”, resiste: nel ’22 furono censite 62 mila prostitute a Pietrogrado e Mosca. Solo nel ’46 la Francia chiuse i bordelli, seguita dalla Germania. In Italia la legge per l’abolizione delle case chiuse, presentata dalla senatrice socialista Lina Merlin nell’agosto del ’48, passò 10 anni dopo, il 4 marzo ’58, tra accese polemiche e tesi ancora oggi dibattute.
13 Luglio 2016
cultura, storia prostituzione
 


The Athenaeum - A Spring Fantasy (William John Hennessy)-fonte I 1000 quadri più belli di tutti i tempi

sabato 30 luglio 2016

crostata di frutta _da butta la pasta

Dolce Frutta

Crostata di frutta

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Tempo:
1 h e 15 min
Difficoltà:
Media
Porzioni:
6 Persone
Calorie:
340 Kcal/Porz
Videoricetta della crostata alla frutta Questa è la ricetta per la classica crostata di frutta, fatta di un friabile guscio di pasta frolla farcito con della crema pasticcera e tanta colorata e succosa frutta fresca. La crostata di frutta non pone limiti alla vostra fantasia, potete veramente sbizzarrivi ad accostare i diversi colori della frutta e a disporla in graziosi motivi decorativi. Questa torta è perfetta per concludere una cena o un pranzo e sarà sicuramente apprezzata da tutti, se però avete in mente di servirla in un buffet potete trasformarla in tante crostatine mono porzioni, come suggerito nella galleria di foto. Per un buon risultato usate tanti tipi di frutta e preparate voi stessi la pasta frolla e la crema pasticcera, senza ricorrere a prodotti industriali.

Ingredienti

    Per la pasta frolla
  • 300 gr di Farina 00
  • 2 tuorli
  • 100 gr di zucchero a velo
  • 140 gr di burro
  • Per la crema pasticcera
    • 80 gr di maizena
    • 7 tuorli
    • 550 ml di latte
    • 140 gr di zucchero semolato
    • scorza di 1 limone
    • Per la farcitura
    • 1 banana, 70 gr di fragole, 70 gr di mirtilli, 1 arancia, 1 kiwi
    • 70 gr di confettura a scelta
    • acqua

Preparazione

CROSTATA DI FRUTTA INIZIO
  1. Iniziate a preparare la pasta frolla mettendo in un mixer zucchero a velo, farina, burro freddo tagliato a dadini. Frullate il tutto e aggiungete i 3 tuorli d'uovo.
  2. Continuate a frullare per qualche minuto e trasferite il composto su una superficie piana.
  3. Impastate il tutto per qualche minuto fino ad ottenere un panetto omogeneo. Avvolgetelo con la pellicola e lasciatelo in frigo per mezz'ora.
  4. Nel frattempo versate in un pentolino il latte necessario alla preparazione della crema pasticcera: fate raggiungere al latte il bollore, spegnete la fiamma e lasciate che si raffreddi insieme alla scorza grattugiata del limone.
    Variante:
    La crema pasticcera può essere aromatizzata non solo con la scorza di limone ma anche con l'arancia o con la vaniglia, a seconda delle preferenze
  5. Rimuovete la scorza e aggiungete zucchero e tuorli.
  6. Mescolate la crema con la frusta, versate anche la maizena setacciata, cuocete ancora per qualche minuto in modo che la crema si addensi.
  7. Versatela in un recipiente coprendola con la pellicola. Fatela raffreddare e poi mettetela in frigo.
  8. Prendete la pasta frolla e appoggiatela su una spianatoia, ricavateci un cerchio e collocatelo sulla tortiera circolare. Bucherellate il fondo e versate sulla frolla dei ceci secchi per mantenere la pasta schiacciata in fase di cottura.
  9. Cuocete la pasta frolla in forno a 180 gradi per circa 20 minuti, sfornatela, eliminate i ceci e infornatela per altri 5 minuti. Lasciatela raffreddare.
  10. Sbattete con uno sbattitore elettrico la crema pasticcera che nel frattempo si sarà addensata in frigorifero. Versatela sulla crostata livellandola bene.
  11. Tagliate la frutta a pezzetti disponendola a raggera sulla crostata.
  12. Per ottenere la gelatina fate bollire per 2 minuti la confettura, unita a un po' d'acqua, in un pentolino.
  13. Spennallate la crostata con la gelatina e lasciatela raffreddare in frigo per qualche ora.

da la stampa -sezione economia

Fisco Usa, Facebook rischia multa da cinque miliardi di dollari

Il social di Zuckerberg è sotto indagine per lo spostamento di asset verso la sede europea in Irlanda, dove le tasse sono più basse
AFP
Mark Zuckerberg

30/07/2016
Altro che Snapchat e Twitter. Al momento il più grosso problema di Facebook è una patata bollente da cinque miliardi di dollari, recapitata a Menlo Park dall’Irs, l’agenzia delle entrate statunitense. Secondo il fisco Usa, Facebook potrebbe pagare una salatissima multa per gli spostamenti di alcuni asset verso la sede europea situata in Irlanda, dove ci sono meno tasse da pagare.

«Anche se l’avviso dell’Irs si riferisce all’anno fiscale 2010, l’agenzia ha sottolineato che, in caso di esito favorevole delle indagini, applicherà lo stesso modello agli annui successivi - si legge nella nota -. con un ammontare di tasse da pagare compreso tra i 3 e i 5 miliardi di dollari, più interessi e more». Secondo il sito Cnn Money, tutto sarebbe nato a causa di un’errata valutazione fatta da Ernst & Young, lo studio che si è occupato di quantificare i beni da trasferire tra i due continenti.

L’azienda ha annunciato di non essere «d’accordo con la testi dell’Irs» e che farà ricorso in sede legale. «Ma se l’agenzia dovesse prevalere - conclude la nota -, le tasse, gli interessi e le penali potrebbero avere un impatto concreto e negativo sulla nostra posizione finanziaria». Facebook, insomma, per la prima volta sembra essere sulla difensiva. E anche questa, a suo modo, è una notizia.

venerdì 29 luglio 2016

gaetano bresci -da amanti della storia

29 LUGLIO 1900 : L’ATTENTATO A UMBERTO I° .
Gaetano Bresci uccise re Umberto I° di Savoia a Monza, la sera di domenica 29 luglio 1900, sparandogli tre colpi di rivoltella, una “Massachusetts” a 5 colpi calibro 9, poi si lasciò catturare senza opporre resistenza evitando così il linciaggio da parte della folla inferocita. Il processo fu istruito in brevissimo tempo. Il 29 agosto, cioè un mese esatto dopo il delitto, comparve davanti alla corte d’Assise di Piazza Beccaria a Milano. La sentenza era scontata.
Ascoltati i testimoni, i giurati si ritirarono per decidere e dopo pochi minuti il verdetto dichiarava l’imputato colpevole e lo condannava ai lavori forzati. Scontò la pena nel penitenziario di S. Stefano, presso Ventotene e per poterlo controllare a vista venne edificata per lui una speciale cella di tre metri per tre, priva di suppellettili.
Morì il 22 maggio 1901 ufficialmente per "suicidio", impiccato per mezzo di un asciugamani. Probabilmente morì anche prima di questa data ufficiale.
Ma chi era Gaetano Bresci e chi aveva armato la sua mano?
Era nato a Coiano, frazione di Prato, da famiglia contadina. All'età di 15 anni entrò a far parte di un circolo anarchico di Prato. Nel 1892 fu condannato a 15 giorni di carcere per oltraggio e rifiuto di obbedienza alla forza pubblica. Schedato come "anarchico pericoloso" fu relegato a Lampedusa. Amnistiato sul finire del 1896, emigrò negli Stati Uniti, a Paterson nel New Jersey dove trovò lavoro come tessitore e frequentò una comunità anarchica di emigrati italiani. Nella primavera del 1900 rientrò in Italia, il 29 luglio sparò a re Umberto I°.
Oltre alla teoria che vuole Bresci deciso ad uccidere il re perchè particolarmente colpito dai moti di Milano del 1898 e dalla dura repressione operata da Bava Beccaris, c'è anche un'altra ipotesi che riguarderebbe un complotto ben più ampio.
Da alcuni rapporti segreti della polizia recapitati al primo ministro Giolitti emersero precise responsabilità circa i complici di Bresci e i mandanti del regicidio. Da molto tempo i servizi italiani tenevano d’occhio una villa di Neully, in Francia, mèta di continui via vai di personaggi tra i più disparati. Tra i tanti, Errico Malatesta, Pietro Gori, Charles Malato noti anarchici, Angelo Insogna giornalista napoletano e fervente borbonico.
Il tutto condurrebbe alla figura di una “Grande Vecchia” ispiratrice e mandante del complotto di Monza. Essa venne individuata in Maria Sofia di Borbone, ultima regina di Napoli, moglie di Francesco II defenestrato dal Regno delle Due Sicilie da Vittorio Emanuele II con l’aiuto di Garibaldi nel 1860. In una lettera privata il prefetto di Torino Guido Guiccioli affermò che Giolitti aveva le prove della macchinazione: fu l’ex Regina di Napoli che fornì i mezzi necessari per attuare il piano. E Bresci corrispondeva perfettamente all’identikit di chi avrebbe potuto materialmente attuare l'attentato.
Dopo la condanna del regicida, Giovanni Giolitti venne a conoscenza di una lettera del 18 maggio 1901, intercettata dai servizi, scritta da Errico Malatesta che parlava della preparazione di un grosso colpo da parte dei “noti” di Neully : la liberazione di Gaetano Bresci.
Questo spiega sia il telegramma che Giolitti inviò al direttore del penitenziario di Santo Stefano con l’invito a rafforzare la sorveglianza, sia l’invio sull’isola di una compagnia del 49° Fanteria al comando del tenente Orazio Carola per sorvegliare dall’esterno l’istituto di pena.
Sta di fatto che il 22 maggio, o forse qualche giorno prima, Gaetano Bresci “l’anarchico venuto dall’America” pur guardato a vista da almeno due secondini, fu trovato impiccato nella sua cella.
Antonio A. – Fonte: “L’anarchico che venne dall’America” di Arrigo Petacco
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Comm

villa reale modena

Monza - Villa Reale di Monza

da oggi.it

kaffeehaus-firenze

foto da artribuna -interno kaffeehaus fotodo fondoambiente.it

giovedì 28 luglio 2016

il quarto stato di Volpedo giuseppe pellizza-da Focus Storia


#natioggi
28 luglio 1868: nasce a Volpedo Giuseppe Pellizza autore del famoso quadro Il Quarto Stato, che nel 1902 l’autore inviò all’Esposizione universale di #Torino, sottolineando con quel titolo l’affermazione - accanto alla borghesia (il terzo stato) - del proletariato (appunto il quarto). Il quadro è al museo del Novecento, a #Milano

Le Scienze .it L'importanza dei romanzi per l'empatia e lo sviluppo sociale


22 luglio 2016

L'importanza dei romanzi per l'empatia e lo sviluppo sociale

Racconti, romanzi, film non sono solo intrattenimento: una rassegna degli studi più recenti sul rapporto tra narrazione e stato mentale conferma che sono importanti strumenti per sviluppare e mantenere attiva la nostra capacità di avere una "teoria della mente" e di essere empatici. La finzione narrativa potrebbe quindi aver avuto un ruolo centrale nello sviluppo delle nostre capacità sociali (red)
psicologia arte
La finzione narrativa – soprattutto quella letteraria, ma anche quella cinematografica – stimola l'empatia e lo sviluppo umano: esplorando la vita interiore dei personaggi, i lettori possono formarsi idee su emozioni, motivazioni e idee degli altri, ben al di là di quanto è scritto sulla pagina o rappresentato sullo schermo. E' questa la conclusione a cui è giunto Keith Oatley, dell'Università di Toronto in un articolo pubblicato su “Trends in Cognitive Sciences” in cui fa il punto sui risultati di una serie di recenti studi sui rapporti fra narrazione e stato mentale.

L'idea che fra immaginazione narrativa, sviluppo di una “teoria della mente” (la capacità di attribuire anche agli altri degli stati mentali e di comprenderli) ed empatia ci fosse uno stretto legame non è nuova per la psicologia, tuttavia a lungo la sua validità è stata affidata a esemplificazioni aneddotiche. La situazione è cambiata con lo sviluppo delle tecniche di imaging cerebrale che, fornendo un punto di riferimento obiettivo, ha stimolato stimolato ricerche più sistematiche sia di tipo neuroscientifoco che più classicamente psicologico.

L'importanza dei romanzi per l'empatia e lo sviluppo sociale
Una scena de Il gattopardo di Luchino Visconti, dal romanzo omonimo di Tomasi di Lampedusa.  (Pubblico dominio)
Uno studio diretto dallo stesso Oatley, per esempio, ha appurato che mostrando a un gruppo di soggetti 36 fotografie di occhi e chiedendo di scegliere fra quattro termini quello che indicava ciò che stavano pensando o provando (un classico test per la valutazione dell'empatia), i  soggetti che avevano precedentemente letto un testo di narrativa ottenevano punteggio più elevati di quelli a cui era stato fatto leggere un testo non narrativo. E lo stesso avveniva, sia pure in misura meno marcata, se l'esperimento era condotto con filmati di fiction o no.

La maggiore efficacia della lettura potrebbe essere legata al maggiore impegno immaginativo a cui costringe, per il quale il nostro cervello pare molto versato: un altro studio di risonanza magnetica funzionale ha infatti mostrato che sono sufficienti brevissime frasi descrittive  (come "un tappeto blu scuro") per portare l'ippocampo – una regione del cervello associata con l'apprendimento e la memoria – ai livelli massimi di attività.

“Questo - dice Oatley - ­ sottolinea il potere della mente di chi legge e come gli scrittori non abbiano bisogno di descrivere le scene in modo esauriente per accendere la fantasia del lettore: basta che le suggeriscano."

L'importanza dei romanzi per l'empatia e lo sviluppo sociale
Febbraio 2016: la compagnia del Globe Theater di Londra rappresenta Amleto nel campo profughi di Calais (Dan Kitwood/Getty Images)
Questo nuovo campo della psicologia della finzione narrativa solleva molte questioni: perché nei bambini in età prescolare l'ascolto di racconti o la visione di film stimola lo sviluppo della teoria della mente, ma - come ha mostrato un'altra ricerca - questo non avviene con i programmi televisivi? E ancora: qual è il ruolo della narrazione nell'evoluzione umana?

Secondo Oatley racconti, romanzi, film o serie televisive sono frammenti di coscienza che passano da una mente all'altra e che hanno influito e influiscono sulla nostra evoluzione come esseri sociali: "Pressoché tutte le culture umane creano storie che, fino ad ora, sono state classificate piuttosto sprezzantemente come 'intrattenimento'. Ma penso che ci sia qualcosa di più profondo e importante”, osserva Oatley. "E' distintivo degli esseri umani stringere con altre persone - amici, amanti, bambini - accordi sociali che non sono preprogrammati dall'istinto. La finzione narrativa può aumentare la nostra esperienza sociale e aiutarci a comprenderla".

lunedì 25 luglio 2016

da le citazioni più belle

elefante nano

 

 
  La sala degli elefanti del museo Gemmellaro

Kalima- ottobre 2009
Foto da Wikimedia Commons





 Partendo dal Mammut, gli elefanti nel corso dei millenni hanno avuto vari tipi di evoluzione. Il genere dell’elefante nano, di cui si sono ritrovati fossili, apparve nella fase preistorica. Le tracce di essi sono state riportate alla luce soprattutto nel bacino del Mediterraneo, in particolare nelle isole, quali la Sicilia, ma anche in Sardegna, Cipro, Malta, Creta, Dodecaneso e Cicladi.
Gli elefanti ritrovati nelle isole del Mediterraneo, generalmente avevano derivazione dalla specie continentale Elephas antiquus, apparsi nel Pleistocene. Alcuni studiosi asseriscono, però, che l’elefante nano sardo, detto Mammuthus lamarmorae, abbia derivazione dai mammut. Tale asserzione, però, è stata confutata recentemente.

La curiosa presenza degli elefanti nelle isole non deve stupire più di tanto. Durante le glaciazioni, infatti, il livello marino si abbassava e le isole si ricongiungevano in un certo qual modo all’area continentale. Le isole venivano, quindi, ripopolate dagli elefanti. In quei periodi erano presenti nella stessa isola anche più sottospecie contemporaneamente.
A volte  ogni isola aveva la sua specie caratteristica. Lo abbiamo visto nel caso della Sardegna, ma si segnala anche sulle isole Cicladi e in alcune altre isole. Inoltre, i ritrovamenti nelle isole greche delle Cicladi (
Delos, Naxos, Kythnos, Serifos e Milos) hanno rivelato la presenza di diverse specie nello stesso arcipelago, Ad esempio nell’isola di Delos si sono scoperti fossili di Elephas antiquus, mentre in quella di Naxos la specie è di Elephas melitensis.
Nel Dodecaneso, sull’isola di Rodi, sono venuti alla luce alcuni giacimenti di fossili di elefante nano. A parte la specie e la possibile derivazione, il dato da sottolineare per questi ritrovamenti è che sono quelli più recenti in linea temporale, tanto da far supporre che gli elefanti qui ritrovati siano quelli prossimi all’estinzione. Quest’ultima sarebbe, quindi, databile intorno al 2.000 a.C. circa.
Le specie di elefante nano ritrovate in Sicilia e a Malta, essenzialmente sono:Elephas (Palaeoloxodon) antiquus leonardii (1969)
Elephas (Palaeoloxodon) mnaidriensis (1874)
Elephas (Palaeoloxodon) melitensis (1868)
Elephas (Palaeoloxodon) falconeri (1867)

La specie preistorica dell’elefante nano, denominato
Elephas falconeri, porta il nome del suo scopritore. Fu individuato, studiando alcuni denti, per la prima volta da Hugh Falconer. Oggi porta il suo nome, grazie allo studioso George Busk, che lo propose in suo onore alla comunità scientifica.
Questa specie è considerata un esempio di nanismo insulare. L’elefante nano, infatti, non superava i 90 centimetri di altezza. Presente, soprattutto, sulle isole del Mediterraneo, è, chiaramente, una specie estinta, diversi millenni fa, sia nel continente europeo sia nelle stesse isole. L’elefante nano è imparentato con l’attuale elefante asiatico.

domenica 24 luglio 2016

reggia di capodimonte-.napoligrafia.i


Reggia di Capodimonte

 

Storia e architettura
Il Palazzo Reale di Capidimonte è ubicato in via Capodimonte.
La sua costruzione si deve a Carlo III di Borbone che, negli anni Trenta del 1700 decise di avviarne il progetto. Per prima cosa, l’architetto militare Antonio Medrano venne incaricato di comprare tutti i terreni e le proprietà necessarie nella zona scelta dal re. In seguito, nel 1738, cominciarono i lavori veri e propri che seguivano il progetto presentato dallo stesso Medrano in collaborazione, poi interrotta, con Antonio Canevari.
A causa delle poche risorse economiche a disposizione, i lavori durano molti anni e, nel 1743, si registrò anche l’intervento di Ferdinando Sanfelice che realizzò l’edificio che avrebbe ospitato la fabbrica di porcellane e la chiesa dedicata a San Gennaro.
Prima di Tornare in Spagna nel 1759, re Carlo portò la sua collezione d’arte nella parte completa dell’edificio e lasciò il trono al figlio Ferdinando IV. Purtroppo, sotto il suo regno, tutte le costruzioni vennero bloccate e la reggia fu trasformata nella sua dimora, con il conseguente trasferimento delle opere d’arte nel Palazzo degli Studi. Nel 1799, a causa della rivoluzione giacobina, Ferdinando fu costretto a fuggire in Sicilia e vi portò anche parte della collezione senza che queste fecero più ritorno. La stessa situazione si verificò cinque anni più tardi quando, con la venuta dei francesi, il re scappò di nuovo.
Così, durante il periodo di dominazione francese, Giuseppe Bonaparte decise di abitare nella reggia e, nel 1809, fece anche costruire la strada che portava da Capodimonte al Museo.
I lavori di costruzione ripresero solo nel 1817, quando i Borbone tornarono a Napoli. Nell’occasione si affido anche a Domenico Venuto l’allestimento delle collezioni d’arte, tra cui quella in Palazzo Cellamare, trasformando l’edificio in Museo Borbonico.
Nel 1833, con Ferdinando II, si cominciò la costruzione dell’ultima parte dell’edificio e vennero attuati una serie di interventi di abbellimento, progettati da Tommaso Giordano per la parte architettonica e da Salvatore Giusti e Giuseppe Mazzocchi per quella decorativa. Venne realizzato un scalone a doppio rampante che aveva accesso da una triplice arcata, ripetuta anche al piano superiore, nella quale si aprivano quattro nicchie con statue; inoltre, le pareti vennero decorate con putti, stemmi e medaglioni in stucco.
Con l’unità d’Italia, la proprietà della Reggia passò ai Savoia che, pur continuando ad utilizzarla come residenza, cominciarono a sistemare numerose collezioni e opere d’arte all’interno dei numerosi saloni dell’edificio, soprattutto grazie all’impegno di Domenico Morelli, Federico Maldarelli e Tommaso De Vivo, che si era preoccupato di raccogliere i dipinti di pittori napoletani, acquistati dalla famiglia reale durante le mostre organizzate dall’Accademia delle Belle Arti.
Nel 1920 la proprietà del palazzo passo allo Stato, ma i Savoia continuarono ad abitarla fino al 1948 quando, terminata la guerra, si decise di destinare l’edificio a Museo. Così, terminati alcuni lavori di restauro eseguiti dall’architetto Ezio De Felice, l’inaugurazione ufficiale si tenne nel 1957.

Tratto da: Aurelio De Rose, I palazzi di Napoli, Roma, Newton & Compton, 2001

donai-divinità madre terra

sabato 23 luglio 2016

Scienze & Tech- da quotidiano libero.it


La previsione catastrofica

Eruzioni devastanti colpiranno la Terra: non c'è scampo. Quando e dove (in Italia)


Non abbiamo scampo. Perché per prepararci ( se mai ci riusciremo) alla più devastante eruzione di uno dei super vulcani che "dormono" sulla Terra, avremo solo un anno di tempo. Troppo poco per affrontare un'esplosione così potente da riuscire a devastare l'intero pianeta, modificare il paesaggio locale e condizionare il clima per numerosi anni a venire con effetti catastrofici per gli esseri umani. Secondo una ricerca, pubblicata su Plos One, e rilanciata dall'Huffingtonpost, i primi segnali dell'imminente eruzione si presenteranno in ritardo, dunque non sarà possibile per gli scienziati riconoscerli prima dei dodici mesi precedenti all'evento.
Analizzando i cristalli di quarzo estratti da un sito nell'est della California in cui, 760mila anni fa, è avvenuta una violenta eruzione, gli studiosi Guilherme Gualda della Vanderbilt University e Stephen Sutton della University of Chicago sono arrivati a ipotizzare che i segnali d'avvertimento siano ben pochi perché la fase finale che precede l'esplosione dei super-vulcani avviene in pochissimo tempo contrariamente a quanto si credeva in passato.


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Nel corso del tempo sul nostro pianeta si sono registrate varie eruzioni di questo genere. Il Taupo in Nuova Zelanda, esploso circa 26.500 anni fa, produsse oltre 1000 chilometri cubi di materiale, formando una caldera di oltre 30 chilometri di diametro. Questa datazione, forse non a caso, è molto vicina a quella dell'ultimo massimo glaciale. In Indonesia, 75,000 anni, un vulcano è esploso emettendo circa 300 chilometri cubi di materiale e formando quello che oggi è noto come lago Toba. Oltre a quest'ultimo, le caldere oggi più pericolose sono quelle di Yellowstone negli Stati Uniti ed i Campi Flegrei in Italia.
Le eruzioni fanno parte della storia della Terra: i vulcani, soprattutto i super-vulcani, ci sono ed erutteranno ancora. Ciò che conta è capire quando. "Più del 70% della potenza dovrebbe accumularsi in meno di un anno, infatti i cristalli di quarzo sono cresciuti maggiormente nell'arco di mesi o addirittura giorni prima dell'eruzione", scrivono i ricercatori. Un anno di tempo non sembra abbastanza per correre ai ripari, per costruire un'immaginaria arca e mettersi in salvo. Neanche quest'ultima, però, basterebbe: le conseguenze potrebbero farsi sentire in qualsiasi zona del pianeta e in nessun posto gli esseri umani potrebbero sentirsi al sicuro.

Il limoncello trasparente Scienza in cucina di Dario Bressanini da Le Scienze


Dario Bressanini

Scienza in cucina

di Dario Bressanini

Il limoncello trasparente

Sto scrivendo il secondo libro della collana “La scienza della…”, (dopo la pasticceria questa volta è il turno della carne). Per isolarmi un po’ sono stato in “ritiro” al mare per qualche giorno e sono tornato carico di limoni del giardino. Ho pensato quindi, tra un capitolo sulle marinate e uno sulle costine, di riprendere i miei esperimenti sul limoncello.
Quest’inverno vi avevo raccontato come fosse possibile ottenere un ottimo limoncello in una frazione del tempo che si impiega solitamente. Anche solo un paio d’ore. Il liquore ottenuto era di un bel giallo carico, profumatissimo e completamente opaco. Leggendo un po’ in rete ho notato che alcuni considerano l’opacità del limoncello un difetto. A seconda della ricetta a volte viene più o meno opaco, e l’opacità si riduce un po’ con il trascorrere del tempo ma non diviene mai perfettamente limpido.
È possibile produrre in casa un limoncello perfettamente trasparente? E sarebbe stato buono come quello che ormai preparo con soddisfazione in una sola  giornata?
Adoro le sfide, soprattutto quelle con me stesso. Vi ricordate quando ci ho messo più di un anno per ottenere in casa il sale di Maldon? Questa nuova sfida, produrre un liquore di limone perfettamente trasparente, mi sembrava però più facile perché avevo già una mezza idea di come fare. O meglio, sapevo perché il limoncello che avevo preparato era opaco. Spiegando i misteri della Sambuca e del Pastis vi avevo spiegato come l’opacità di quei liquori mescolati ad acqua era dovuta a delle nanoemulsioni che si formano perché l’alcool etilico puro riesce a sciogliere una quantità maggiore di sostanze organiche rispetto a quelle che possono sciogliersi in una miscela di acqua e alcool. E infatti, come la Sambuca, quando si aggiunge acqua all’estratto alcoolico di limone il liquido diventa opaco perché una parte delle sostanze organiche disciolte forma delle piccolissime goccioline. Non è possibile filtrare un limoncello opaco per renderlo limpido perché le goccioline sono troppo piccole per i normali filtri.
L’idea per fare un limoncello trasparente quindi era semplice: le sostanze organiche estratte non devono essere di più di quelle che la miscela acqua/alcool può sciogliere. Il modo più semplice per farlo quindi è, banalmente, effettuare la macerazione non in alcool puro, come nella procedura classica, ma già in una miscela acqua/alcool. In questo modo sono sicuro che non verranno estratte più sostanze di quelle che la miscela può tenere in soluzione. In questo modo dovrei, almeno in teoria, ottenere un limoncello trasparente.
Ho pelato dei limoni, sia verdi che gialli
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Quante scorze usare? Nella ricetta precedente avevo usato 30 g di scorze per ogni 100 ml di alcool. Qui, per controbilanciare un po’ il fatto che l’alcool viene diluito con l’acqua, ho provato a usare 40 g di scorze ogni 80 g di Alcool etilico. Mi sono chiesto poi quando aggiungere lo zucchero: insieme ai liquidi, nella macerazione, oppure alla fine della macerazione? Lo zucchero potrebbe influire sull’estrazione degli aromi. In che modo però non è chiaro. Potrebbe favorire l'estrazione o ostacolarla, per cui ho deciso di sperimentare entrambi i casi. Nel primo caso la macerazione avverrà solo con alcool e acqua, e lo zucchero verrà aggiunto dopo la filtrazione. Nel secondo le scorze verranno immerse in una soluzione di acqua, alcool e zucchero.
Per questo esperimento ho quindi usato 40 g di scorze, 80 g di alcool e 120 g di acqua (in bottiglia con un basso residuo fisso).
Nel primo barattolo (A) metto le scorze, l’alcool e l’acqua. Nel secondo (B) metto le scorze, 50 g di zucchero, 80 g di alcool e 120 g di acqua. Poi assaggeremo.
Oddio! È (leggermente) opaco! Dove ho sbagliato?
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Mumble mumble. Gli ingredienti li ho aggiunti uno alla volta e la leggera opalescenza è comparsa quando ho versato l’acqua. Forse  in quella decina di secondi che sono passati tra l’aggiunta dell’alcool e quella dell’acqua sono state estratte delle sostanze che si sono emulsionate all’arrivo dell’acqua.
Per verificare la mia teoria ho sciolto separatamente alcool, acqua e zucchero, scaldando un po’, e solo quando la miscela era diventata limpida l’ho unita alle scorze nel barattolo (C).
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Niente torbidità!
Quanto tempo lo lascio a macerare? Se, come abbiamo visto usando alcool al 95%, il limoncello è già pronto –e di aroma freschissimo– dopo solo un giorno, aggiungendo acqua l’estrazione dovrebbe rallentare, e quindi sono stato tentato di allungare i tempi. Questi esperimenti sono stati fatti quindi con quattro giorni di estrazione.
Allo scadere del quarto giorno ho filtrato velocemente gli estratti usando una tisaniera
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Ho aggiunto lo zucchero al campione A e ho imbottigliato.
I risultati
Ecco qui, da sinistra verso destra, il campione C, il campione A e quello che è avanzato da un limoncello fatto con la ricetta da 3 giorni di macerazione, il limoncello “standard”.
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Prima di tutto i confronti tra A, B e C: non ho trovato differenze, anche annusando e assaggiando in cieco, almeno in questo esperimento, quindi l’aggiunta dello zucchero in fase di macerazione o successiva non fa differenza.
A e B in quattro giorni di riposo sono diventati un po’ più limpidi di quanto fossero inizialmente, ma non sono diventati perfettamente trasparenti. Guardando la foto il confronto con il limoncello standard mostra chiaramente come il colore di A e C sia molto meno intenso. D’altra parte ce lo aspettavamo, visto che A e C hanno estratto meno sostanze organiche.
L'aroma? Il limoncello standard vince nettamente. Più profumato e aromatico.
E il sapore? Confrontato con il limoncello standard risulta un poco più amaro, meno aromatico ma più morbido. Evidentemente la miscela acqua/alcool, come già avevamo visto preparando l'estratto di vaniglia, estrae le sostanze in proporzioni diverse rispetto all’alcool puro. Questo confronto però non è rigoroso, sia per la diversa gradazione alcolica e zuccherina sia perché il limoncello standard è stato lasciato maturare per più di un mese, quindi dovrò fare almeno un altro esperimento di controllo, magari variando i tempi di macerazione. Lo scopo di questo esperimento era solo vedere se riuscivo a produrre un limoncello perfettamente trasparente. Però ho dei dubbi che si possa eguagliare il profumo il sapore e l’aroma ottenuto dall'estrazione con solo alcool. È il prezzo da pagare, temo, se volete il limoncello limpido.
Io per ora continuo a preferire quello opaco. L'opacità è un pregio, non un difetto!
Torno a immergermi nella reazione di Maillard. Alla prossima.
Dario Bressanini
Scritto in Bevande, Chimica, Emulsioni, Estrazione,

messaggio importante da le citazioni più belle

venerdì 22 luglio 2016

Chiesa di San Paolo a Vendaso.-foto di andrea lazzari

monumento a meschi (sindaclista -piaxxa d' armi carrara.foto marco nicoli

manifestazione a castelnuovomagra(sp)

DOMENICA 24 LUGLIO - GIARDINO PALAZZO AMATI
W:M serate di vino, musica e spettacolo

WINE:MUSIC - FAR FINTA DI ESSERE GABER
LE CANZONI DA MARCIAPIEDE (Valentina Pira e Andrea Belmonte)
in un omaggio a Giorgio Gaber

dalle ore 21:00 alle 22.00 degustazione vini liguri
ore 22:00 concerto pianoforte e voce

Per la rassegna estiva [Wine &...], Enoteca Regionale della Liguria propone una serata di musica, accompagnata da voce e piano de LE CANZONI DA MARCIAPIEDE, in un suggestivo omaggio al Signor G.

Ingresso libero

PRENOTAZIONE GRADITA info@enotecaregionaleliguria.it

Prima dell'evento possibilità di APERIVINO e su prenotazione APERICENA chiamando il 0187 677406 oppure 338 7679420 Rita o scrivendo a info@enotecaregionaleliguria.it


 

giovedì 21 luglio 2016

le scienze- blog di Riccardo Oldani-R1, l'umanoide italiano. A cosa servirà?(robotica -iiit)


Noi e i robot

di Riccardo Oldani

R1, l'umanoide italiano. A cosa servirà?

Avrete letto tutti, in questi giorni, di R1, the Humanoid Robot, il piccolo robot umanoide messo a punto dall'Istituto Italiano di tecnologia. Un automa che, in prospettiva, dovrebbe entrare nelle nostre case per farci da assistente. L’IIT ha messo a punto una prima versione, una sorta di prototipo, che ora dovrebbe essere sviluppato in un prodotto realizzabile livello industriale per essere introdotto sul mercato. Prezzo ipotetico 25.000 euro per i primi 100 pezzi e poi una progressiva riduzione fino a raggiungere il costo ideale di 3.000 euro. Un oggetto costoso, certo, ma poi non così irraggiungibile. A patto che davvero il robot si affermi come qualcosa di assolutamente indispensabile per il pubblico come l'automobile o il televisore.
Non mi dilungo qui a raccontarvi come è fatto R1. Lo avete già letto su tutti i giornali e, per chi non lo avesse fatto, il video che vi propongo qui penso che sia più che sufficiente.

Il robot, però, nasce dal lavoro del team di ricerca dell'Istituto Italiano di tecnologia che da tempo si occupa dello sviluppo di iCub, il robot bambino utilizzato a scopo di ricerca in una trentina di università del mondo. L’équipe è coordinata Giorgio Metta che è anche a capo del gruppo di 22 ricercatori impegnati nel progetto di R1. Che non arriva come un fulmine a ciel sereno, perché lo stesso Metta ne aveva anticipato da tempo lo sviluppo.
Robot domestico
In un'intervista che gli feci nel 2014 per il mio libro Spaghetti Robot ecco che cosa mi diceva Metta riguardo all'idea e all'utilità di un robot umanoide domestico: «Avere un robot in ogni casa, un personal robot o un personal assistant, come ipotizzava Bill Gates nel 2007 è qualcosa che si può senz’altro fare fare. La tecnologia non è così lontana. Non dobbiamo immaginare l'umanoide perfetto, quello classico dei romanzi di Asimov per intenderci, ma un vero prodotto, quindi una cosa più semplice, con soluzioni ad hoc per risolvere veri problemi. Qualcosa di più che un aspirapolvere, un vero robot che possa fare delle cose concrete, come assistere una persona, che magari ha difficoltà a muoversi o a compiere determinate azioni. Un robot che aiuti il suo proprietario nelle piccole azioni di tutti i giorni. Magari non è capace di sollevarlo o trasportarlo, e quindi non è un badante. Però pensiamo a piccole necessità, come prendere e portare un oggetto oppure assistere qualcuno per mangiare. Ci sono già dei dispostivi robotici in grado di fare queste cose e noi abbiamo in mente un robot umanoide che vada ancora oltre e possa svolgere un gran numero di compiti di questo tipo».
Macchina da compagnia
Ma il robot di casa non necessariamente, nell'idea dei ricercatori, deve saper fare soltanto cose utili. «Potremmo volere un robot in casa anche solo per il desiderio di vivere più comodi – dice ancora Metta –. Da sempre amiamo circondarci, nelle nostre abitazioni, di oggetti che ci “coccolano”. Abbiamo il telecomando perché non vogliamo alzarci dalla poltrona per premere un bottone. E adesso ci sono anche elettrodomestici programmabili, in grado di fare da soli tutta una serie cose. Ma la difficoltà nell'installare certe soluzioni, come per esempio quelle domotiche, sta nel dover mettere mano agli impianti già esistenti, magari rifarli o riprogettarli. E chi ha voglia, per una piccola comodità in più, di rivoluzionare il proprio appartamento? Con un robot invece le cose andrebbero diversamente, perché ci consentirebbe di automatizzare tutta la casa. Se è una macchina intelligente che sa accendere e spegnere le luci, avviare il condizionatore o la lavastoviglie, spostare le cose, mettere a posto la mia camera, avrei risolto ogni problema tecnico di automazione della casa e avrei realizzato un sogno. Io sono convinto che queste cose siano parzialmente fattibili e che non siamo poi così lontani da quel traguardo».
Utile ma non indispensabile
Quando gli chiesi se sarebbe stato iCub a fare tutto questo Metta disse di no. Molto più probabilmente un suo parente un po' più “stupido”, meno sofisticato. «Tutto il nostro lavoro sull'intelligenza artificiale – commenta Metta – magari non si renderà così necessario, almeno inizialmente, per dar vita a un robot domestico veramente utile. Che forse non saprà fare cose così sofisticate, ma potrebbe comunque essere dotato di una sua intelligenza. Per esempio potremmo chiedergli di telefonare a nostra madre mentre siamo in cucina, stiamo tirando la pasta, abbiamo le mani occupate e abbiamo bisogno di qualche dritta. Il robot potrebbe essere equipaggiato con Skype, o avere uno smartphone incorporato, e quindi essere attrezzato per aiutarci in questo. Oppure potrebbe semplicemente fungere da terzo braccio e aiutarci a cucinare, passandoci gli ingredienti. In questo caso il nostro robot non sarebbe un qualcosa di necessario. Ma, a pensarci bene, tante cose da cui oggi non riusciamo a separarci, come l'iPhone o il tablet, non sono così indispensabili. Insomma, la nostra continua ricerca di una vita più comoda potrebbe essere un motivo importante per lo sviluppo di robot di questo genere». E per il suo successo commerciale. Tenuto conto anche dello l'utilità sociale che una macchina di questo genere potrebbe avere: «Molte persone – osservava Metta – potrebbero avere un giovamento sostanziale dall'aiuto di un robot di questo tipo».
Intelligenza embedded
Una delle cose che molti giornali hanno evidenziato del robot umanoide R1 è il fatto che la sua intelligenza e stata sviluppata all'interno della macchina stessa, secondo il concetto che l'intelligenza si sviluppa in modo funzionale al corpo che la ospita. E quello stesso concetto di embodiment di cui vi scrivevo qualche post fa.
La vera incognita in tutto questo sta nella reale possibilità di fare di R1 un vero prodotto commerciale, non soltanto riproducibile a livello industriale ma anche richiesto dal mercato. La configurazione umanoide comporta molti problemi che gli scienziati dell'Istituto Italiano di tecnologia hanno cercato di superare con soluzioni semplificate: per esempio la forma delle mani, con due dita, oppure l'uso delle ruote al posto delle gambe, che comporterà senz'altro qualche problema di spostamento nelle abitazioni su più livelli. La vera scommessa, qui, sta nel realizzare una piattaforma che poi possa essere integrata e arricchita dal software, concepito come tante app, ognuna delle quali sarà in grado di dare al robot una funzione diversa. È qui, probabilmente, che starà il business della robotica di servizio più che nello sviluppo dell'oggetto in sé. Chi saprà sviluppare il robot più semplice, più efficiente, più piacevole e amato dal pubblico avrà un vantaggio non da poco rispetto alla concorrenza. Che la forma umanoide sia quella giusta è però ancora tutto da vedere.