Primo Piatto
Pasta
Vegetariano
venerdì 26 agosto 2016
lunedì 22 agosto 2016
lettera aperta per la direzione di facebook
Dopo aver letto ilvostro codice etico per entrare nel social network da voi gestito , mi è sorta spontanea una domanda riguardo un punro. Il punto in questione è la chiusura di quei profili che mostrano tendenze auto lesionistiche e/o suicide , bene , ma poi che fate?
li abbandonate a loro stessi o fate in modo che siano segnalati alle autorità sanitarie ,in modo che siano aiutati e curati?
Questo amplia il discorso ai profili dei sadici ,criminali ,terrotristi e quant'altro.
Soppratutto vorrei sapere in base a quali parametri si decide il modo di classificazione , dei suddeti comportamenti.
Vorrei anche domandarvi cosa ritenete possa offendere altre persone,anche perche ci sara sempre qualcuno che troverà offensivi un qualsiasi post anche se fosse un semplice buona giornata.
Drmbra che per una distorta concezione del politicamente corretto ,vogliate uniformare il modo di esprimersi e pensare in un unico modo di pensare ,vi prego di rassicurarmj che la mia sia solo unimpressione sbagliata
distinti saluti da kunta kinte
li abbandonate a loro stessi o fate in modo che siano segnalati alle autorità sanitarie ,in modo che siano aiutati e curati?
Questo amplia il discorso ai profili dei sadici ,criminali ,terrotristi e quant'altro.
Soppratutto vorrei sapere in base a quali parametri si decide il modo di classificazione , dei suddeti comportamenti.
Vorrei anche domandarvi cosa ritenete possa offendere altre persone,anche perche ci sara sempre qualcuno che troverà offensivi un qualsiasi post anche se fosse un semplice buona giornata.
Drmbra che per una distorta concezione del politicamente corretto ,vogliate uniformare il modo di esprimersi e pensare in un unico modo di pensare ,vi prego di rassicurarmj che la mia sia solo unimpressione sbagliata
distinti saluti da kunta kinte
domenica 21 agosto 2016
Carl Vilhelm Holsøe (1863-1935) - la stanza di luce · da arte per poveri
Carl Vilhelm Holsøe (1863-1935) - The Sunlit Room
Carl Vilhelm Holsøe (1863-1935) - la stanza di luce
·
giovedì 18 agosto 2016
tratto dagli amanti della storia- dedicato a....
Amanti della storia·
I CURDI: STORIA DI UN POPOLO SENZA PATRIA.
Costituiscono uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale. Discendono probabilmente dagli antichi “medi” una popolazione di origine indo-iraniana. Dall'Asia Centrale si diressero, intorno al 614 a.C., verso i monti dell'Iran. A questo periodo risale il primo scritto in lingua curda: una poesia a tema religioso. Nel VII secolo ci fu la conversione all'Islam, prima si praticava la religione zoroastriana ed erano presenti comunità ebraiche e cristiane. I curdi non hanno mai avuto un idioma comune. Sono due i loro dialetti principali, il kurmanji e il sorani. Anche la scrittura è diversa: in Iraq, Siria e Iran la scrittura usata è quella con caratteri arabi modificati, mentre in Turchia si usano i caratteri latini.
Tra il 1169 e il 1250 una dinastia curda, di cui Saladino ne è l'esponente sicuramente più illustre, regnò in tutto il Medio Oriente musulmano. Nella metà del Cinquecento i curdi si allearono con il sultano ottomano contro la Persia. All'inizio del XVI secolo il Kurdistan venne diviso tra ottomani e persiani. Le forti limitazioni imposte dall’impero ottomano all’inizio del XIX provocarono numerose rivolte che avevano come obiettivo l’unificazione del popolo curdo e la sua autonomia
Il 30 ottobre 1918 l'impero ottomano viene battuto dagli Alleati ed alla Gran Bretagna viene dato il mandato sull'Iraq arabo. Nel 1920 il trattato di Sevres stabilì il diritto alla nascita del Kurdistan nelle province orientali dell'Anatolia. Non venne mai applicato anzi, nel 1923 il trattato di Losanna annettè alla Turchia la maggior parte del territorio dei curdi, e per oltre 15 anni si susseguono rivolte popolari contro il governo di Ankara e di Teheran.
Durante la guerra tra Iraq e Iran, 1980-1988, i curdi sono stati tra le principali vittime del sanguinoso conflitto con l'Iraq che utilizzò armi chimiche contro di loro nel tentativo di riprendere il controllo del nord del paese. Il conflitto provocò l'esodo di circa 60 mila curdi in Turchia. Dopo la Guerra del Golfo, l'Onu creò un'area di sicurezza a nord dell'Iraq. In Turchia, dove la repressione contro di loro è particolarmente violenta, è attivo il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, che combatte per formare uno Stato curdo nel sud del paese. Altri partiti minori chiedono invece una larga autonomia, che hanno in parte ottenuto grazie alla zona di esclusione aerea creata dall'Onu nel 1991.
La regione del Kurdistan, circa 450 mila chilometri quadrati, è divisa tra Turchia, Iran, Iraq e Siria (in immagine). I curdi sono per la maggior parte di religione musulmana sunnita. Secondo alcune stime sono circa 38 milioni, 20 milioni in Turchia, sei milioni in Iraq, dieci milioni in Iran e due milioni in Siria. Inoltre sono circa un milione e mezzo i curdi che vivono nella diaspora, un numero che negli ultimi anni è salito enormemente: le organizzazioni internazionali calcolano che i profughi, in questo momento, siano almeno cinque milioni. In Europa, il gruppo più consistente si trova in Germania, ma altre numerose comunità si trovano in Austria, Svizzera, Gran Bretagna,Scandinavia, Francia, Grecia e Italia.
Nell'attuale divisione degli Stati in Medio Oriente la nascita di uno Stato autonomo del Kurdistan appare ormai un'ipotesi difficilmente realizzabile: nessuno dei paesi coinvolti, infatti, è disposto a cedere aree più o meno ampie del suo territorio a favore del popolo curdo, privandosi delle materie prime di cui quei territori sono ricchi, prima fra tutte il petrolio. Il 75% del petrolio iracheno proviene dal Kurdistan, gli unici giacimenti della Turchia ed i più importanti della Siria si trovano in Kurdistan, anche nella zona di Kermanshah, territorio iraniano ma abitato da curdi, si produce petrolio.
E’ storia recente il loro importante contributo per la riconquista di Kobane precedentemente occupata dai fondamentalisti dell'ISIS.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Enciclopedia Treccani
#popoli #turchia #kurdistan #curdi
Costituiscono uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale. Discendono probabilmente dagli antichi “medi” una popolazione di origine indo-iraniana. Dall'Asia Centrale si diressero, intorno al 614 a.C., verso i monti dell'Iran. A questo periodo risale il primo scritto in lingua curda: una poesia a tema religioso. Nel VII secolo ci fu la conversione all'Islam, prima si praticava la religione zoroastriana ed erano presenti comunità ebraiche e cristiane. I curdi non hanno mai avuto un idioma comune. Sono due i loro dialetti principali, il kurmanji e il sorani. Anche la scrittura è diversa: in Iraq, Siria e Iran la scrittura usata è quella con caratteri arabi modificati, mentre in Turchia si usano i caratteri latini.
Tra il 1169 e il 1250 una dinastia curda, di cui Saladino ne è l'esponente sicuramente più illustre, regnò in tutto il Medio Oriente musulmano. Nella metà del Cinquecento i curdi si allearono con il sultano ottomano contro la Persia. All'inizio del XVI secolo il Kurdistan venne diviso tra ottomani e persiani. Le forti limitazioni imposte dall’impero ottomano all’inizio del XIX provocarono numerose rivolte che avevano come obiettivo l’unificazione del popolo curdo e la sua autonomia
Il 30 ottobre 1918 l'impero ottomano viene battuto dagli Alleati ed alla Gran Bretagna viene dato il mandato sull'Iraq arabo. Nel 1920 il trattato di Sevres stabilì il diritto alla nascita del Kurdistan nelle province orientali dell'Anatolia. Non venne mai applicato anzi, nel 1923 il trattato di Losanna annettè alla Turchia la maggior parte del territorio dei curdi, e per oltre 15 anni si susseguono rivolte popolari contro il governo di Ankara e di Teheran.
Durante la guerra tra Iraq e Iran, 1980-1988, i curdi sono stati tra le principali vittime del sanguinoso conflitto con l'Iraq che utilizzò armi chimiche contro di loro nel tentativo di riprendere il controllo del nord del paese. Il conflitto provocò l'esodo di circa 60 mila curdi in Turchia. Dopo la Guerra del Golfo, l'Onu creò un'area di sicurezza a nord dell'Iraq. In Turchia, dove la repressione contro di loro è particolarmente violenta, è attivo il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, che combatte per formare uno Stato curdo nel sud del paese. Altri partiti minori chiedono invece una larga autonomia, che hanno in parte ottenuto grazie alla zona di esclusione aerea creata dall'Onu nel 1991.
La regione del Kurdistan, circa 450 mila chilometri quadrati, è divisa tra Turchia, Iran, Iraq e Siria (in immagine). I curdi sono per la maggior parte di religione musulmana sunnita. Secondo alcune stime sono circa 38 milioni, 20 milioni in Turchia, sei milioni in Iraq, dieci milioni in Iran e due milioni in Siria. Inoltre sono circa un milione e mezzo i curdi che vivono nella diaspora, un numero che negli ultimi anni è salito enormemente: le organizzazioni internazionali calcolano che i profughi, in questo momento, siano almeno cinque milioni. In Europa, il gruppo più consistente si trova in Germania, ma altre numerose comunità si trovano in Austria, Svizzera, Gran Bretagna,Scandinavia, Francia, Grecia e Italia.
Nell'attuale divisione degli Stati in Medio Oriente la nascita di uno Stato autonomo del Kurdistan appare ormai un'ipotesi difficilmente realizzabile: nessuno dei paesi coinvolti, infatti, è disposto a cedere aree più o meno ampie del suo territorio a favore del popolo curdo, privandosi delle materie prime di cui quei territori sono ricchi, prima fra tutte il petrolio. Il 75% del petrolio iracheno proviene dal Kurdistan, gli unici giacimenti della Turchia ed i più importanti della Siria si trovano in Kurdistan, anche nella zona di Kermanshah, territorio iraniano ma abitato da curdi, si produce petrolio.
E’ storia recente il loro importante contributo per la riconquista di Kobane precedentemente occupata dai fondamentalisti dell'ISIS.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Enciclopedia Treccani
#popoli #turchia #kurdistan #curdi
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martedì 16 agosto 2016
storie di migranti-da amanti della storia
17 AGOSTO 1893: I FATTI DI AIGUES-MORTES.
Gli scontri di Aigues-Mortes, un comune francese situato nella regione della Linguadoca-Rossiglione, aprirono inizialmente una profonda crisi diplomatica tra Francia e Italia. Qualche giornale aveva invocato una guerra ai francesi e nella penisola le voci sul massacro erano sfociate in manifestazioni di protesta nelle principali città.
La cittadina francese era rinomata per le saline dove, alla fine dell’800, trovavano impiego centinaia di persone tra cui circa 600 italiani. L'ambiente di lavoro non era dei migliori anche per un palpabile odio che montava contro gli italiani accusati “di portar via il lavoro” e di essere disponibili a lavorare al cottimo. Secondo alcune ricostruzioni il 16 agosto 1893 durante una pausa dal lavoro, un torinese avrebbe lavato il suo fazzoletto pieno di sale nella tinozza contenente l'acqua dolce. La reazione dei francesi sarebbe stata violenta, il torinese avrebbe quindi ferito con un coltello uno degli aggressori. Fu la scintilla che innescò le violenze del giorno seguente.
Gli scontri di Aigues-Mortes, un comune francese situato nella regione della Linguadoca-Rossiglione, aprirono inizialmente una profonda crisi diplomatica tra Francia e Italia. Qualche giornale aveva invocato una guerra ai francesi e nella penisola le voci sul massacro erano sfociate in manifestazioni di protesta nelle principali città.
La cittadina francese era rinomata per le saline dove, alla fine dell’800, trovavano impiego centinaia di persone tra cui circa 600 italiani. L'ambiente di lavoro non era dei migliori anche per un palpabile odio che montava contro gli italiani accusati “di portar via il lavoro” e di essere disponibili a lavorare al cottimo. Secondo alcune ricostruzioni il 16 agosto 1893 durante una pausa dal lavoro, un torinese avrebbe lavato il suo fazzoletto pieno di sale nella tinozza contenente l'acqua dolce. La reazione dei francesi sarebbe stata violenta, il torinese avrebbe quindi ferito con un coltello uno degli aggressori. Fu la scintilla che innescò le violenze del giorno seguente.
Il 17
agosto centinaia di francesi assaltarono le baracche che ospitavano i
lavoratori stranieri. Fu una strage nonostante l'intervento della forza
pubblica che riprese il controllo della situazione con notevole
difficoltà. Per precauzione si decise di mandar via gli italiani
scortati alla stazione dai gendarmi. Ma nei pochi chilometri che
separavano le saline dalla ferrovia riprese la caccia all'italiano. I
nostri connazionali cercarono di salvarsi fuggendo nelle paludi
circostanti ma, nonostante questo estremo tentativo di mettersi in
salvo.
Il bilancio totale delle vittime fu contraddittorio: meno di 10 secondo la stampa francese, oltre 50 secondo il “Times” di Londra. I feriti furono centinaia. Quasi tutte le vittime erano piemontesi del Cuneese e dintorni e un ligure. Le stampe di entrambi i paesi strumentalizzarono a loro piacimento il massacro e il processo, che ebbe inevitabilmente una collocazione politica e si concluse con l'assoluzione di tutti i 17 imputati che erano stati rinviati a giudizio.
La reazione italiana fu piuttosto tiepida. Qualcuno si lavò le mani. Crispi cavalcò l'ondata nazionalistica che investì il paese poi una volta giunto al potere, lasciò perdere.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Espresso / Provincia di Asti.
#accaddeoggi #emigrazione #francia #aiguesmortes
Il bilancio totale delle vittime fu contraddittorio: meno di 10 secondo la stampa francese, oltre 50 secondo il “Times” di Londra. I feriti furono centinaia. Quasi tutte le vittime erano piemontesi del Cuneese e dintorni e un ligure. Le stampe di entrambi i paesi strumentalizzarono a loro piacimento il massacro e il processo, che ebbe inevitabilmente una collocazione politica e si concluse con l'assoluzione di tutti i 17 imputati che erano stati rinviati a giudizio.
La reazione italiana fu piuttosto tiepida. Qualcuno si lavò le mani. Crispi cavalcò l'ondata nazionalistica che investì il paese poi una volta giunto al potere, lasciò perdere.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Espresso / Provincia di Asti.
#accaddeoggi #emigrazione #francia #aiguesmortes
dedicato a chi ha dimenticato il passato
lunedì 15 agosto 2016
fusilli con pesto di rucola - dabutta la pasta
Vi proponiamo la ricetta per il pesto di rucola per condire la pasta,
comunque consideratela una ricetta da tirare fuori quando il basilico
piccolo e profumato di Prà non si trova e quindi si deve ripiegare sulla
facile da reperire rucola. Comunque parlando seriamente il pesto di rucola è una buona e saporita salsa per condire la pasta, che vi suggeriamo di scegliere corta, come le penne, i fusilli o le farfalle.
Ingredienti
- 1 mazzetto di rucola fresca e tenera
- 100 gr di ricotta
- 3 cucchiai colmi di pinoli
- qualche rametto di prezzemolo tenero
- olio extra vergine di oliva q.b.
- sale e pepe q.b.
Preparazione
- Pulite la rucola, eliminate i gambi e le foglie troppo dure, pulite anche il prezzemolo; lavate ed asciugate il tutto.
- Mettete in un frullatore la rucola, il prezzemolo, i pinoli, la ricotta, 6 cucchiai di olio d’oliva ed un pizzico di sale, frullate il tutto a bassa velocità.
- Al momento di condire la pasta, diluite questa salsa con un pochino di acqua di cottura della pasta e prima di servire spolverate la pasta con un po' di pepe.
Consigli:
A piacere potete aggiungere al pesto patate bollite e fagiolini.
Foto di Sara Maternini
sfida ai soliti aperitivi , after house ,droghe ed altri sbali. suggerimento da amanti della storia
STORIA DELLA " SETTIMANA ENIGMISTICA" .
Nacque grazie all'amore di un nobile sardo, Giorgio Sisini, Conte di Sant'Andrea, per una giovane austriaca, nella Vienna postimperiale. Il nobiluomo, dopo averla sposata decise di portala con sé a Milano e insieme a lei tradusse la moda per i giochi linguistici e di logica, giunta da oltreoceano e assai in voga nella società viennese degli anni trenta. Da qui l'idea di fondare una rivista specifica, che si concretizzò il 28 gennaio del 1932. Ebbe inizio così la storia della Settimana Enigmistica, la «rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione» (dicitura in copertina nei numeri dispari del periodico).
Nacque grazie all'amore di un nobile sardo, Giorgio Sisini, Conte di Sant'Andrea, per una giovane austriaca, nella Vienna postimperiale. Il nobiluomo, dopo averla sposata decise di portala con sé a Milano e insieme a lei tradusse la moda per i giochi linguistici e di logica, giunta da oltreoceano e assai in voga nella società viennese degli anni trenta. Da qui l'idea di fondare una rivista specifica, che si concretizzò il 28 gennaio del 1932. Ebbe inizio così la storia della Settimana Enigmistica, la «rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione» (dicitura in copertina nei numeri dispari del periodico).
Un giornale in bianco e nero di sedici pagine con parole crociate,
rebus, passatempi, vignette e spazi umoristici. S'iniziava a giocare fin
dalla copertina dove le caselle nere del cruciverba mostravano, nel
primo numero, l'immagine dell'attrice messicana Lupe Vélez ( in
immagine). Costo 50 centesimi di lire. La redazione fu organizzata
presso il Palazzo Vittoria, in piazza Cinque Giornate. Alla morte di
Sisini si alternarono i più valenti enigmisti italiani, come Piero
Bartezzaghi e Giancarlo Brighenti, considerati gli artefici storici
della Settimana Enigmistica.
Diversi i punti di forza che costruirono nel tempo un solido legame con i lettori di ogni età e di cultura medio-alta: la conservazione della storica veste grafica, ritoccata marginalmente con l'aggiunta qua e là del colore nelle immagini dal 1995, e la scelta di non accogliere pubblicità nelle sue pagine. Ed inoltre, rubriche e giochi pubblicati ognuno in una pagina fissa e con una numerazione progressiva; la personalità famosa associata al cruciverba in copertina; le risposte pubblicate nel numero successivo. Anche la cadenza settimanale restò immutata con una sola interruzione, nel luglio del 1945, dovuta alle vicende belliche.
Oltre alle tradizionali parole crociate ed ai rebus, tra i passatempi più noti ai fan di ieri e di oggi: quelli basati sullo spirito di osservazione come "Che cosa manca?" o "Aguzzate la vista"; gli spazi di notizie e curiosità di storia e attualità come "Forse non tutti sanno che…", "Spigolature"; i quiz di cultura generale "Vero o falso?" e "L'Edípeo enciclopedico".
Tra le pochissime e più recenti introduzioni, il sudoku (popolare gioco di logica, costituito da un quadrato suddiviso in nove riquadri da completare con altrettante serie di numeri da 1 a 9, incrociandole tra di loro verticalmente e orizzontalmente) comparso a partire dal 2005.
Antonio A.
#passatempi #settimanaenigmistica #vacanze
Diversi i punti di forza che costruirono nel tempo un solido legame con i lettori di ogni età e di cultura medio-alta: la conservazione della storica veste grafica, ritoccata marginalmente con l'aggiunta qua e là del colore nelle immagini dal 1995, e la scelta di non accogliere pubblicità nelle sue pagine. Ed inoltre, rubriche e giochi pubblicati ognuno in una pagina fissa e con una numerazione progressiva; la personalità famosa associata al cruciverba in copertina; le risposte pubblicate nel numero successivo. Anche la cadenza settimanale restò immutata con una sola interruzione, nel luglio del 1945, dovuta alle vicende belliche.
Oltre alle tradizionali parole crociate ed ai rebus, tra i passatempi più noti ai fan di ieri e di oggi: quelli basati sullo spirito di osservazione come "Che cosa manca?" o "Aguzzate la vista"; gli spazi di notizie e curiosità di storia e attualità come "Forse non tutti sanno che…", "Spigolature"; i quiz di cultura generale "Vero o falso?" e "L'Edípeo enciclopedico".
Tra le pochissime e più recenti introduzioni, il sudoku (popolare gioco di logica, costituito da un quadrato suddiviso in nove riquadri da completare con altrettante serie di numeri da 1 a 9, incrociandole tra di loro verticalmente e orizzontalmente) comparso a partire dal 2005.
Antonio A.
#passatempi #settimanaenigmistica #vacanze
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domenica 14 agosto 2016
sabato 13 agosto 2016
quadro surrealista da arteide
Phenomenal Surreal Paintings by Canadian Artist Rob Gonsalves
Fenomenale surreale dipinti da artista canadese Rob Gonsalves
venerdì 12 agosto 2016
Michał Gorstkin Wywiórski (1861-1926) - Afterglow, winter landscape with a stream (1900) da Dalla pittura alla poesia da-I 1000 quadri più belli di tutti i tempi
Michał Gorstkin Wywiórski (1861-1926) - Afterglow, winter landscape with a stream (1900)
da Dalla pittura alla poesia
da Dalla pittura alla poesia
Michał gorstkin wywiórski (1861-1926) - afterglow, paesaggio invernale con un ruscello (1900)
da Dalla pittura alla poesia
da Dalla pittura alla poesia
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el cid-da amanti della storia
LA STORIA DEL “CID CAMPEADOR”.
Un personaggio sospeso tra mito, leggenda e storia. Rodrigo Díaz de Vivar, meglio noto come "El Cid Campeador" o semplicemente El Cid può considerarsi il più popolare degli eroi nazionali spagnoli, tanto che le sue gesta hanno ispirato numerose opere della letteratura, e non solo quella iberica.
A sgombrare il campo sulla sua reale esistenza dovrebbe essere un documento oggi conservato presso l’archivio della Cattedrale di Salamanca dove si parla di una donazione di “Rodericus Campidoctor et princeps” al vescovo di Valencia. Tale donazione consisteva nel villaggio di Picassent con le sue rendite.
Siamo nel XII secolo, periodo storico della Reconquista spagnola, e a chiamarlo 'El Cid' furono proprio i Mori (da 'As-Sid', Signore o Capo)‚ suoi avversari durante i combattimenti affrontati sotto il comando di Alfonso VI di Leon. Il titolo di 'Campendor' (Campione) gli fu dato dai soldati cristiani‚ durante la sua militanza sotto Sancho di Castiglia. Ricostruire con precisione la sua storia non è semplice in quanto le fonti che lo riguardano sono per lo più agiografiche e scritte con toni epici.
Rodrigo (o Ruy) Díaz de Vivar, nacque nel 1040 (o secondo alcuni storici, nel 1043) per l'appunto a Vivar, un piccolo villaggio vicino a Burgos, da cui prese il nome. Giovanissimo venne introdotto alla corte di re Ferdinando I di Castiglia e del figlio maggiore del re, il futuro Sancho II. La Spagna del tempo non era un regno omogeneo, ma governato da molti re e gran parte del territorio era anche amministrato dagli arabi. Alla morte di re Ferdinando, nel 1065, il regno venne diviso tra i suoi figli Sancho, Alfonso, Garcia, Elvira e Urraca.
A soli 23 anni il giovane Rodrigo fu nominato comandante degli eserciti reali e, prestando fedeltà a Sancho, partecipò sempre al suo fianco nelle guerre contro i suoi fratelli per il controllo totale delle terre lasciate in eredità dal padre. Alla morte di Sancho, assassinato nel 1072, tutto il suo potere passò a suo fratello Alfonso, che assunse il nome di Alfonso VI.
Il sovrano era consapevole che avrebbe avuto bisogno di un leader e sapeva bene che i castigliani amavano El Cid. Fu così che dopo aver rimosso il cavaliere da comandante degli eserciti reali, nel 1074 gli diede in sposa la nipote, Jimena. Da qui ebbe inizio il legame tra Alfonso ed El Cid, Ma il sodalizio non ebbe vita lunga. Forse osteggiato da parte dell’aristrocrazia vicina al re, El Cid cadde in disgrazia agli occhi del sovrano e fu costretto all’esilio.
Passò al servizio di Yusuf al-Mu’taman ibn Hud e, dopo la morte di questi, servì il figlio Al-Mustain II. Difese il sovrano dagli attacchi del fratello al-Mundhir nella battaglia di Morella, presso Tortosa, del 14 agosto 1084. Durante le tante battaglie, e tra alleanze tra mori e cristiani, sconfisse da una parte il sovrano arabo di Lérida e il suo alleato della contea di Barcellona, impedendo al tempo stesso che anche Valencia cadesse completamente nelle mani degli arabi.
Durante la fine del XI secolo si distinse contro l’ invasione degli Almoravidi, una dinastia berbera proveniente dal Sahara. Nel 1087 Alfonso lo richiamò al suo fianco. Ma la loro intesa durò poco: El Cid fu costretto per la seconda volta all’esilio. Tornò da Al-Mustain II.
Nel 1093 assediò Valencia liberandola dai sostenitori degli Almoravidi, nella battaglia di Cuarte, e diventandone lui stesso signore sovrano. Durante il suo governo Valencia fu caratterizzata dalla presenza al tempo stesso di cristiani e di musulmani, tanto che entrambi servivano esercito ed amministrazione civile.
In un gioco di alleanze il potere di El Cid divenne sempre più esplicito: nel 1096 si alleò con Pietro I di Aragona, insieme fermarono l'avanzata degli Almoravidi nella regione; attraverso i matrimoni delle figlie strinse alleanza con i conti di Barcellona e con i sovrani di Navarra.
Nel 1099, nel pieno di un nuovo conflitto contro gli Almoravidi morì forse provato da una vita senza tregua. Non aveva neanche 60anni. Ma ill suo nome era ormai destinato ad essere ricordato in tutta la Spagna. Dopo varie peripezie, dal 1921 i suoi resti riposano nella Cattedrale di Burgos
In immagine : “El Cid” in un celebre film con Charlton Heston del 1961.
Antonio A. – Fonte: History, I Grandi condottieri.
#reconquista #spagna #rodrigodiaz #elcid
Un personaggio sospeso tra mito, leggenda e storia. Rodrigo Díaz de Vivar, meglio noto come "El Cid Campeador" o semplicemente El Cid può considerarsi il più popolare degli eroi nazionali spagnoli, tanto che le sue gesta hanno ispirato numerose opere della letteratura, e non solo quella iberica.
A sgombrare il campo sulla sua reale esistenza dovrebbe essere un documento oggi conservato presso l’archivio della Cattedrale di Salamanca dove si parla di una donazione di “Rodericus Campidoctor et princeps” al vescovo di Valencia. Tale donazione consisteva nel villaggio di Picassent con le sue rendite.
Siamo nel XII secolo, periodo storico della Reconquista spagnola, e a chiamarlo 'El Cid' furono proprio i Mori (da 'As-Sid', Signore o Capo)‚ suoi avversari durante i combattimenti affrontati sotto il comando di Alfonso VI di Leon. Il titolo di 'Campendor' (Campione) gli fu dato dai soldati cristiani‚ durante la sua militanza sotto Sancho di Castiglia. Ricostruire con precisione la sua storia non è semplice in quanto le fonti che lo riguardano sono per lo più agiografiche e scritte con toni epici.
Rodrigo (o Ruy) Díaz de Vivar, nacque nel 1040 (o secondo alcuni storici, nel 1043) per l'appunto a Vivar, un piccolo villaggio vicino a Burgos, da cui prese il nome. Giovanissimo venne introdotto alla corte di re Ferdinando I di Castiglia e del figlio maggiore del re, il futuro Sancho II. La Spagna del tempo non era un regno omogeneo, ma governato da molti re e gran parte del territorio era anche amministrato dagli arabi. Alla morte di re Ferdinando, nel 1065, il regno venne diviso tra i suoi figli Sancho, Alfonso, Garcia, Elvira e Urraca.
A soli 23 anni il giovane Rodrigo fu nominato comandante degli eserciti reali e, prestando fedeltà a Sancho, partecipò sempre al suo fianco nelle guerre contro i suoi fratelli per il controllo totale delle terre lasciate in eredità dal padre. Alla morte di Sancho, assassinato nel 1072, tutto il suo potere passò a suo fratello Alfonso, che assunse il nome di Alfonso VI.
Il sovrano era consapevole che avrebbe avuto bisogno di un leader e sapeva bene che i castigliani amavano El Cid. Fu così che dopo aver rimosso il cavaliere da comandante degli eserciti reali, nel 1074 gli diede in sposa la nipote, Jimena. Da qui ebbe inizio il legame tra Alfonso ed El Cid, Ma il sodalizio non ebbe vita lunga. Forse osteggiato da parte dell’aristrocrazia vicina al re, El Cid cadde in disgrazia agli occhi del sovrano e fu costretto all’esilio.
Passò al servizio di Yusuf al-Mu’taman ibn Hud e, dopo la morte di questi, servì il figlio Al-Mustain II. Difese il sovrano dagli attacchi del fratello al-Mundhir nella battaglia di Morella, presso Tortosa, del 14 agosto 1084. Durante le tante battaglie, e tra alleanze tra mori e cristiani, sconfisse da una parte il sovrano arabo di Lérida e il suo alleato della contea di Barcellona, impedendo al tempo stesso che anche Valencia cadesse completamente nelle mani degli arabi.
Durante la fine del XI secolo si distinse contro l’ invasione degli Almoravidi, una dinastia berbera proveniente dal Sahara. Nel 1087 Alfonso lo richiamò al suo fianco. Ma la loro intesa durò poco: El Cid fu costretto per la seconda volta all’esilio. Tornò da Al-Mustain II.
Nel 1093 assediò Valencia liberandola dai sostenitori degli Almoravidi, nella battaglia di Cuarte, e diventandone lui stesso signore sovrano. Durante il suo governo Valencia fu caratterizzata dalla presenza al tempo stesso di cristiani e di musulmani, tanto che entrambi servivano esercito ed amministrazione civile.
In un gioco di alleanze il potere di El Cid divenne sempre più esplicito: nel 1096 si alleò con Pietro I di Aragona, insieme fermarono l'avanzata degli Almoravidi nella regione; attraverso i matrimoni delle figlie strinse alleanza con i conti di Barcellona e con i sovrani di Navarra.
Nel 1099, nel pieno di un nuovo conflitto contro gli Almoravidi morì forse provato da una vita senza tregua. Non aveva neanche 60anni. Ma ill suo nome era ormai destinato ad essere ricordato in tutta la Spagna. Dopo varie peripezie, dal 1921 i suoi resti riposano nella Cattedrale di Burgos
In immagine : “El Cid” in un celebre film con Charlton Heston del 1961.
Antonio A. – Fonte: History, I Grandi condottieri.
#reconquista #spagna #rodrigodiaz #elcid
mercoledì 10 agosto 2016
Bronte .la rivolta. da amanti della storia-invito ad un viaggio nella storia socio-economica d'italia
10 AGOSTO 1860 : I FATTI DI BRONTE
Come gratitudine per l'intervento a suo favore della marina britannica durante la Rivoluzione napoletana, re Ferdinando IV di Borbone nel 1799 donò il complesso di Santa Maria di Maniace e concesse il titolo di Duca di Bronte all'ammiraglio inglese Horatio Nelson. Da allora in poi il complesso, costituito da un'ampia tenuta e un appartamento nobiliare confinante con la splendida chiesa, prenderà il nome di Ducea di Nelson.
Gli eredi dell’ammiraglio gestiranno la proprietà sia direttamente, ma più spesso attraverso diversi amministratori fiduciari, sino al XX secolo. Tra giugno e luglio 1860 in molte province della Sicilia, occupata dalle truppe di Garibaldi, cominciarono le prime manifestazione nei latifondi demaniali. La promessa della “terra ai contadini” tardava a realizzarsi ed il malcontento cresceva.
Giuseppe Garibaldi il 30 giugno, da Palermo, rassicurava il Console Inglese, John Goodwin, facendo scrivere dal Segretario di Stato per l'Interno, Gaetano Daita che «a nome del Dittatore si dà l'onore di far conoscere al Sig. G. Goodwin, console di S. M. Britannica in Sicilia, che si son date oggi stesso energiche disposizioni perchè non avvenga il minimo inconveniente, abuso o pregiudizio del diritto e delle proprietà di Lady Nelson, Duchessa di Bronte, e coglie questa occasione per esprimere i sensi della più distinta considerazione.» (Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il luogotenente Generale Interno, anno 1860, vol. 1594, n. 217).
Ma proprio a Bronte esplose una violenta protesta dei contadini tra il 29 luglio ed il 6 agosto a causa della mancata abolizione della tassa sul macinato che penalizzava le classi più povere. I rivoltosi inoltre chiedevano l’abolizione della feudale “Ducea”. Nei tumulti che seguirono ci furono 16 morti.
Affinchè difendesse i diritti dei cittadini inglesi, il console inglese John Goodwin invocò l’aiuto di Giuseppe Garibaldi accampato a sud di Messina,. Sottoposto a pressanti sollecitazione anche da Francesco Crispi, ministro dell’interno del regime dittatoriale dell’isola, il generale affidò a Nino Bixio il compito di riportare l’ordine nella cittadina.
Bixio arrivò a Bronte il 6 agosto con due battaglioni quando però i più violenti erano già fuggiti. Come primo atto fu decretato lo stato d’assedio, la consegna delle armi e l’imposizione di una tassa di guerra. Poi fu costituita una commissione per celebrare il processo ai rivoltosi, molti dei quali analfabeti, ai quali fu data 1 ora di tempo per presentare le proprie memorie difensive.
I difensori dovevano in quel ristretto lasso di tempo recarsi nella cancelleria e prendere conoscenza degli atti (perché se non avesse letto quali erano gli elementi di accusa, quali erano le indicazioni probatorie, quali erano i testimoni che stavano a carico dei loro assistiti naturalmente non avrebbero potuto concepire una sorta di piano difensivo), andare al carcere e colloquiare con ciascuno degli imputati e informarli delle colpe che a ciascuno di essi venivano attribuite. Predisporre le note difensive e le discolpe con le indicazioni dei testimoni.
La sera del 9 agosto sul banco degli imputati sedevano oltre 150 persone, tra loro l’avvocato Nicolò Lombardi espressione degli interessi comunali e quindi ritenuto colpevole di non aver saputo tenere a freno la violenza contadina. 5 furono i condannati a morte, venticinque imputati ebbero l'ergastolo, uno vent’anni di lavori forzati e due dieci, cinque semplice reclusione. Il 10 agosto all’alba Nicolò Lombardi fu fucilato insieme a 4 contadini semi-analfabeti dinanzi all’intera popolazione di Bronte.
Alla luce delle successive ricostruzioni storiche si è appurato come Lombardo fosse totalmente estraneo alla rivolta, invitato a fuggire da più parti si sarebbe rifiutato per poter difendere il proprio onore.
Nel 1972 Florestano Vancini ha girato sulla vicenda il film “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”.
Nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà Nelson. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce la «capitale mondiale del pistacchio».
Antonio A. - Fonte: La Stampa / Bronteinsieme.
#accaddeoggi #risorgimento #garibaldi #bixio #duceadinelson #bronte
Come gratitudine per l'intervento a suo favore della marina britannica durante la Rivoluzione napoletana, re Ferdinando IV di Borbone nel 1799 donò il complesso di Santa Maria di Maniace e concesse il titolo di Duca di Bronte all'ammiraglio inglese Horatio Nelson. Da allora in poi il complesso, costituito da un'ampia tenuta e un appartamento nobiliare confinante con la splendida chiesa, prenderà il nome di Ducea di Nelson.
Gli eredi dell’ammiraglio gestiranno la proprietà sia direttamente, ma più spesso attraverso diversi amministratori fiduciari, sino al XX secolo. Tra giugno e luglio 1860 in molte province della Sicilia, occupata dalle truppe di Garibaldi, cominciarono le prime manifestazione nei latifondi demaniali. La promessa della “terra ai contadini” tardava a realizzarsi ed il malcontento cresceva.
Giuseppe Garibaldi il 30 giugno, da Palermo, rassicurava il Console Inglese, John Goodwin, facendo scrivere dal Segretario di Stato per l'Interno, Gaetano Daita che «a nome del Dittatore si dà l'onore di far conoscere al Sig. G. Goodwin, console di S. M. Britannica in Sicilia, che si son date oggi stesso energiche disposizioni perchè non avvenga il minimo inconveniente, abuso o pregiudizio del diritto e delle proprietà di Lady Nelson, Duchessa di Bronte, e coglie questa occasione per esprimere i sensi della più distinta considerazione.» (Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il luogotenente Generale Interno, anno 1860, vol. 1594, n. 217).
Ma proprio a Bronte esplose una violenta protesta dei contadini tra il 29 luglio ed il 6 agosto a causa della mancata abolizione della tassa sul macinato che penalizzava le classi più povere. I rivoltosi inoltre chiedevano l’abolizione della feudale “Ducea”. Nei tumulti che seguirono ci furono 16 morti.
Affinchè difendesse i diritti dei cittadini inglesi, il console inglese John Goodwin invocò l’aiuto di Giuseppe Garibaldi accampato a sud di Messina,. Sottoposto a pressanti sollecitazione anche da Francesco Crispi, ministro dell’interno del regime dittatoriale dell’isola, il generale affidò a Nino Bixio il compito di riportare l’ordine nella cittadina.
Bixio arrivò a Bronte il 6 agosto con due battaglioni quando però i più violenti erano già fuggiti. Come primo atto fu decretato lo stato d’assedio, la consegna delle armi e l’imposizione di una tassa di guerra. Poi fu costituita una commissione per celebrare il processo ai rivoltosi, molti dei quali analfabeti, ai quali fu data 1 ora di tempo per presentare le proprie memorie difensive.
I difensori dovevano in quel ristretto lasso di tempo recarsi nella cancelleria e prendere conoscenza degli atti (perché se non avesse letto quali erano gli elementi di accusa, quali erano le indicazioni probatorie, quali erano i testimoni che stavano a carico dei loro assistiti naturalmente non avrebbero potuto concepire una sorta di piano difensivo), andare al carcere e colloquiare con ciascuno degli imputati e informarli delle colpe che a ciascuno di essi venivano attribuite. Predisporre le note difensive e le discolpe con le indicazioni dei testimoni.
La sera del 9 agosto sul banco degli imputati sedevano oltre 150 persone, tra loro l’avvocato Nicolò Lombardi espressione degli interessi comunali e quindi ritenuto colpevole di non aver saputo tenere a freno la violenza contadina. 5 furono i condannati a morte, venticinque imputati ebbero l'ergastolo, uno vent’anni di lavori forzati e due dieci, cinque semplice reclusione. Il 10 agosto all’alba Nicolò Lombardi fu fucilato insieme a 4 contadini semi-analfabeti dinanzi all’intera popolazione di Bronte.
Alla luce delle successive ricostruzioni storiche si è appurato come Lombardo fosse totalmente estraneo alla rivolta, invitato a fuggire da più parti si sarebbe rifiutato per poter difendere il proprio onore.
Nel 1972 Florestano Vancini ha girato sulla vicenda il film “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”.
Nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà Nelson. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce la «capitale mondiale del pistacchio».
Antonio A. - Fonte: La Stampa / Bronteinsieme.
#accaddeoggi #risorgimento #garibaldi #bixio #duceadinelson #bronte
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balilla -da amanti della storia
LA STORIA DI BALILLA, IL RAGAZZO DI PORTORIA.
Dopo oltre due secoli di neutralità ed un glorioso passato, la Repubblica di Genova si schierò nella guerra di successione austriaca a fianco della Francia e della Spagna. Nel 1746 dovette subire l’occupazione da parte delle truppe di Vienna.
In una gelida mattina di dicembre di quello stesso anno, a Genova quartiere Portoria un drappello di soldati austriaci trascinava faticosamente un pesante mortaio che sprofondò nella strada fangosa.
Dopo oltre due secoli di neutralità ed un glorioso passato, la Repubblica di Genova si schierò nella guerra di successione austriaca a fianco della Francia e della Spagna. Nel 1746 dovette subire l’occupazione da parte delle truppe di Vienna.
In una gelida mattina di dicembre di quello stesso anno, a Genova quartiere Portoria un drappello di soldati austriaci trascinava faticosamente un pesante mortaio che sprofondò nella strada fangosa.
I soldati allora chiesero aiuto alla gente del posto e quando uno di
loro alzò il bastone contro un uomo per farsi ubbidire, un ragazzo di
circa undici anni, Giovan Battista Perasso detto Balilla, accese la
rivolta contro gli invasori tirando un sasso all'urlo "Che l'inse?" (“La
comincio?”, “Volete che cominci io?”. ).
Vera o meno la leggenda che ci viene tramandata, un fatto rimane certo: il grande moto popolare del 1746 consentì a Genova di liberarsi delle truppe austriache da poco entrate in città. La rivolta divampò per tutta la città e costrinse dopo cinque giornate di furiosi combattimenti gli austriaci alla fuga.
La ribellione entrò subito nella leggenda e nell’immaginario collettivo per assurgere, cent'anni dopo, a simbolo di tutti gli italiani in lotta contro le occupazioni straniere.
Durante il ventennio il fascismo inquadrò militarmente, chiamandoli Balilla, i bambini dai 6 ai 13 anni, e tutto sotto la supervisione di un Ente creato ad hoc nel 1926: l'Opera Nazionale Balilla. La Fiat nel, 1932, gli dedicò una delle prime utilitarie della storia ed ancora il regime chiamò così un sommergibile entrato in servizio nel 1928.
Nel 1947 il famoso «calcio da tavolo» fu chiamato «calcio Balilla».
La storia di Giovanni Battista Perasso però non fu mai storicamente accertata. L'esistenza di un non meglio specificato adolescente viene confermata dal diplomatico veneziano Cavalli che in un dispaccio del 13 gennaio 1747 scrisse di un ragazzo che aveva scagliato un sasso contro gli austriaci senza però aggiungerne il nome o soprannome. Nel 1881 una commissione nominata dal Comune di Genova, dopo aver sentito i vecchi di Portoria stabilì «la quasi certezza» che Giambattista Perasso figlio di Antonio Maria tintore di seta, era nato a Genova nella parrocchia di Santo Stefano il 26 ottobre 1735.
Dunque il Balilla avrebbe avuto all'epoca dei fatti 11 anni. Gli studi proseguirono ancora per anni fino a quando nel 1927 la Società Ligure di Storia Patria si arrese e sentenziò che non era possibile, sulla base dei documenti a disposizione, identificare con sicurezza il «ragazzo delle sassate».
Antonio A.
#accaddeoggi #repubblicadigenova #balilla
Vera o meno la leggenda che ci viene tramandata, un fatto rimane certo: il grande moto popolare del 1746 consentì a Genova di liberarsi delle truppe austriache da poco entrate in città. La rivolta divampò per tutta la città e costrinse dopo cinque giornate di furiosi combattimenti gli austriaci alla fuga.
La ribellione entrò subito nella leggenda e nell’immaginario collettivo per assurgere, cent'anni dopo, a simbolo di tutti gli italiani in lotta contro le occupazioni straniere.
Durante il ventennio il fascismo inquadrò militarmente, chiamandoli Balilla, i bambini dai 6 ai 13 anni, e tutto sotto la supervisione di un Ente creato ad hoc nel 1926: l'Opera Nazionale Balilla. La Fiat nel, 1932, gli dedicò una delle prime utilitarie della storia ed ancora il regime chiamò così un sommergibile entrato in servizio nel 1928.
Nel 1947 il famoso «calcio da tavolo» fu chiamato «calcio Balilla».
La storia di Giovanni Battista Perasso però non fu mai storicamente accertata. L'esistenza di un non meglio specificato adolescente viene confermata dal diplomatico veneziano Cavalli che in un dispaccio del 13 gennaio 1747 scrisse di un ragazzo che aveva scagliato un sasso contro gli austriaci senza però aggiungerne il nome o soprannome. Nel 1881 una commissione nominata dal Comune di Genova, dopo aver sentito i vecchi di Portoria stabilì «la quasi certezza» che Giambattista Perasso figlio di Antonio Maria tintore di seta, era nato a Genova nella parrocchia di Santo Stefano il 26 ottobre 1735.
Dunque il Balilla avrebbe avuto all'epoca dei fatti 11 anni. Gli studi proseguirono ancora per anni fino a quando nel 1927 la Società Ligure di Storia Patria si arrese e sentenziò che non era possibile, sulla base dei documenti a disposizione, identificare con sicurezza il «ragazzo delle sassate».
Antonio A.
#accaddeoggi #repubblicadigenova #balilla
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martedì 9 agosto 2016
tintangel legend -da amanti della storia
TINTAGEL: LA LEGGENDA DEL CASTELLO DI RE ARTU'.
Le rovine di Tintagel, il leggendario castello che diede i natali a Re Artù, sorgono sul promontorio dell’omonima cittadina nel nord della Cornovaglia. Secondo la "Historia Regum Britanniae" di Goffredo di Monmouth, alla fine del V secolo il condottiero britanno Uther Pendragon, dopo aver sconfitto Vortigern e suo figlio Paschent e scacciò i mercenari invasori sassoni.
Ma tradì il suo alleato Gorlois duca di Cornovaglia riuscendo a penetrare nella fortezza di Tintagel giacendo con sua moglie Ygraine. Durante questo atto fu concepito il futuro e leggendario re Artù, destinato a lasciare un’impronta indelebile sulla cultura e sulla spiritualità dell’Europa intera.
Le rovine di Tintagel, il leggendario castello che diede i natali a Re Artù, sorgono sul promontorio dell’omonima cittadina nel nord della Cornovaglia. Secondo la "Historia Regum Britanniae" di Goffredo di Monmouth, alla fine del V secolo il condottiero britanno Uther Pendragon, dopo aver sconfitto Vortigern e suo figlio Paschent e scacciò i mercenari invasori sassoni.
Ma tradì il suo alleato Gorlois duca di Cornovaglia riuscendo a penetrare nella fortezza di Tintagel giacendo con sua moglie Ygraine. Durante questo atto fu concepito il futuro e leggendario re Artù, destinato a lasciare un’impronta indelebile sulla cultura e sulla spiritualità dell’Europa intera.
Tutt’oggi migliaia di turisti visitano le rovine del castello di
Tintagel, convinti di trovarsi di fronte proprio al castello
dell’infanzia di Artù. Ma il maniero di cui oggi vediamo le rovine è
stato costruito nella prima metà del XIII secolo, quasi 800 anni dopo
l’epoca di riferimento del leggendario re.
Dobbiamo dunque rivedere o ricrederci su tutta la storia? Non necessariamente. Intanto Goffredo di Monmouth parlando di un castello a Tintagel di certo non parlava di quello attuale, visto che la "Historia Regum Britanniae" è stata scritta tra il 1136 e il 1147, quindi esattamente un secolo prima della costruzione del “nuovo” castello. Si presume quindi che un castello già esistesse sul promontorio della Cornovaglia.
Ma veniamo ai giorni nostri. Gli ultimi scavi nel sito archeologico di Tintagel, iniziati il 18 luglio e terminati martedì scorso, hanno portato alla luce i resti di un palazzo ben più antico di quello finora conosciuto. E gli archeologi lo avrebbero datato proprio in un’epoca compresa tra il V e il VI secolo, esattamente il periodo in cui il duca Gorlois, secondo Goffredo di Monmouth, avrebbe costruito la sua inespugnabile fortezza.
Il castello appena riportato alla luce avrebbe avuto mura larghe circa un metro, massicci gradini e pavimenti lastricati in ardesia. Alcune stanze dovevano essere molto ampie, lunghe 11 metri e larghe 4. Dagli oltre 150 resti di cocci di ceramica, vasellame e anfore si sarebbe poi dedotta la particolare ricchezza della famiglia del castello: vino dall’Anatolia, olio d’oliva dell’Egeo, piatti importati dall’oriente e dal Nord Africa e coppe di vetro dipinto provenienti dal regno dei Franchi.
Dopo la metà del VI secolo, il periodo arturiano, l’intero complesso avrebbe conosciuto un periodo di declino fino al totale abbandono nei primi anni del VII secolo, quando una pandemia mortale si abbatté sulla Britannia e quando gli invasori Sassoni si impadronirono completamente della parte meridionale dell’isola inglese.
In immagine: “La morte di Re Artù” di James Archer.
Antonio A. - Fonte: Storia in rete.
#britannia #reartu #ciclobretone #
Dobbiamo dunque rivedere o ricrederci su tutta la storia? Non necessariamente. Intanto Goffredo di Monmouth parlando di un castello a Tintagel di certo non parlava di quello attuale, visto che la "Historia Regum Britanniae" è stata scritta tra il 1136 e il 1147, quindi esattamente un secolo prima della costruzione del “nuovo” castello. Si presume quindi che un castello già esistesse sul promontorio della Cornovaglia.
Ma veniamo ai giorni nostri. Gli ultimi scavi nel sito archeologico di Tintagel, iniziati il 18 luglio e terminati martedì scorso, hanno portato alla luce i resti di un palazzo ben più antico di quello finora conosciuto. E gli archeologi lo avrebbero datato proprio in un’epoca compresa tra il V e il VI secolo, esattamente il periodo in cui il duca Gorlois, secondo Goffredo di Monmouth, avrebbe costruito la sua inespugnabile fortezza.
Il castello appena riportato alla luce avrebbe avuto mura larghe circa un metro, massicci gradini e pavimenti lastricati in ardesia. Alcune stanze dovevano essere molto ampie, lunghe 11 metri e larghe 4. Dagli oltre 150 resti di cocci di ceramica, vasellame e anfore si sarebbe poi dedotta la particolare ricchezza della famiglia del castello: vino dall’Anatolia, olio d’oliva dell’Egeo, piatti importati dall’oriente e dal Nord Africa e coppe di vetro dipinto provenienti dal regno dei Franchi.
Dopo la metà del VI secolo, il periodo arturiano, l’intero complesso avrebbe conosciuto un periodo di declino fino al totale abbandono nei primi anni del VII secolo, quando una pandemia mortale si abbatté sulla Britannia e quando gli invasori Sassoni si impadronirono completamente della parte meridionale dell’isola inglese.
In immagine: “La morte di Re Artù” di James Archer.
Antonio A. - Fonte: Storia in rete.
#britannia #reartu #ciclobretone #
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lunedì 8 agosto 2016
Rio di San Salvatore, Venezia-I 1000 quadri più belli di tutti i tempi
John
Singer Sargent - Rio di San Salvatore, Venice, 1903-04. Watercolor and
graphite on paper, 25.4 x 34.29 cm (10 x 13.5 in.). Isabella Stewart
Gardner Museum, Boston, MA, USA
Arte Moderna
Arte Moderna
John
Singer Sargent - Rio di San Salvatore, Venezia, 1903-04. Acquarello e
grafite su carta, 25.4 x 34.29 cm (10 x 13.5 in. ). Isabella Stewart
Gardner Museum, Boston, Massachusetts, USA
Arte Moderna
Arte Moderna
margherita gonzaga di lorena-I 1000 quadri più belli di tutti i tempi
Frans
Pourbus the Younger (1569-1622) Margarita Gonzaga, Duchess of Lorraine,
daughter of Duke Vincenzo Gonzaga & Eleonora de' Medici m Duke
Henry I of Lorraine
Frans
Pourbus il giovane (1569-1622) Margherita Gonzaga di Lorena, figlia del
Duca Vincenzo Gonzaga & Eleonora De ' Medici M Duca Enrico I di
Lorena
domenica 7 agosto 2016
sabato 6 agosto 2016
bari sotto assedip-notizia dagli amanti della storia
5 AGOSTO 1068: L’ASSEDIO DI BARI.
Per quasi due secoli Bari fu il principale centro e sede della massima autorità bizantina nei territori occidentali dell’Impero romano d’Oriente. Dopo la fine dell’emirato arabo e una breve parentesi longobarda, nel 876 la città diventò il capoluogo del “Théma di Longobardia”, provincia che comprendeva la Puglia e i territori campani sino a Benevento contesi ai principati longobardi.
Il Théma era governato da un funzionario imperiale che concentrava nella sua persona i poteri militari e quelli civili. Tra il 970 e il 975 Bari divenne la sede del “Catapanato” d’Italia, una forma di governo retto da un nuovo funzionario d’alto rango che aveva giurisdizione su tutti i possedimenti bizantini nella penisola italica. Il Catapano (o Catepano) di Bari occupava il 29° posto nell’ordine delle precedenze ai banchetti e alle cerimonie di corte a Costantinopoli.
Dopo il 1060, molte città costiere della Puglia sotto il controllo bizantino, erano minacciate dalle navi normanne. Questo popolo di origine germanica era intenzionato a porre fine al dominio di Bisanzio in Italia, prima di concentrare le proprie forze alla conquista della Sicilia araba. Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, con un buon contingente di truppe, mosse all’assedio di Bari: era il 5 agosto del 1068.
Nella città pugliese si formarono due fazioni, una filonormanna, l’altra fedele all’impero bizantino che finì per prevalere. Così i baresi chiusero le porte della città, pronti a resistere e mandarono una richiesta di aiuto a Romano IV Diogene a Costantinopoli. Contemporaneamente rifiutarono ogni negoziato offerto da Roberto il Guiscardo.
Vista la situazione, l’imperatore Romano IV nominò un nuovo catapano d’Italia, Avartutele, lo fornì di una flotta, uomini e viveri e lo mandò in soccorso dei baresi. La flotta bizantina arrivò a Bari nei primi mesi del 1069. Intanto Roberto il Guiscardo vittoria dopo vittoria occupò alcuni centri della Puglia ma non tornò immediatamente a Bari, preferendo dirigersi verso Brindisi per aiutare l'assedio normanno di quella città. Nell’autunno 1070 Brindisi capitolò. La situazione per Bari si faceva critica: la Puglia era sempre più in mano ai normanni, la popolazione barese pativa la fame e le truppe normanne, pronte ad attaccare, erano sempre più numerose.
Per tentare di porre fine all’assedio, Avartutele ordì un complotto per assassinare Roberto il Guiscardo ma il piano fallì. Avartutele chiese allora aiuto a Costantinopoli. Ma l'impero non attraversava un buon momento: non aveva un esercito numeroso ed era minacciato ad Oriente e, in più, i suoi generali temevano i normanni, dai quali erano sempre stati sconfitti.
Romano IV riuscì ad armare comunque 20 navi e ne affidò il comando a Gozzelino, un ribelle normanno. A lui fu affiancato Stefano Paterano, nominato nuovo catapano d’Italia. Nel febbraio del 1071 le navi bizantine furono intercettate e disperse dai normanni. Gozzelino fu catturato, mentre Stefano Paterano riuscì fortuitamente ad entrare in città. Il nuovo catapano si rese subito conto che Bari non poteva resistere oltre e inviò una delegazione a parlamentare con i nemici: il 15 aprile 1071 Bari fu consegnata ai normanni ed Il giorno dopo, vigilia della domenica delle Palme, Roberto il Guiscardo entrò in città.
Paterano fu prima messo in prigionia, poi venne lasciato tornare a Costantinopoli, insieme ad altri superstiti. La caduta di Bari fu una catastrofe per l’impero bizantino che conobbe un periodo di grave crisi e inarrestabile decadenza: dopo 536 anni terminava la dominazione bizantina in Italia e iniziava quella normanna. L’ultimo tentativo di riconquista bizantina di Bari si ebbe tra il 1143 e il 1156, ma sempre con esiti disastrosi. Il sogno bizantino di questa città era finito per sempre.
Antonio A. – Fonte: Il Portale del sud.
#accaddeoggi #bizantini #normanni #bari
Per quasi due secoli Bari fu il principale centro e sede della massima autorità bizantina nei territori occidentali dell’Impero romano d’Oriente. Dopo la fine dell’emirato arabo e una breve parentesi longobarda, nel 876 la città diventò il capoluogo del “Théma di Longobardia”, provincia che comprendeva la Puglia e i territori campani sino a Benevento contesi ai principati longobardi.
Il Théma era governato da un funzionario imperiale che concentrava nella sua persona i poteri militari e quelli civili. Tra il 970 e il 975 Bari divenne la sede del “Catapanato” d’Italia, una forma di governo retto da un nuovo funzionario d’alto rango che aveva giurisdizione su tutti i possedimenti bizantini nella penisola italica. Il Catapano (o Catepano) di Bari occupava il 29° posto nell’ordine delle precedenze ai banchetti e alle cerimonie di corte a Costantinopoli.
Dopo il 1060, molte città costiere della Puglia sotto il controllo bizantino, erano minacciate dalle navi normanne. Questo popolo di origine germanica era intenzionato a porre fine al dominio di Bisanzio in Italia, prima di concentrare le proprie forze alla conquista della Sicilia araba. Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, con un buon contingente di truppe, mosse all’assedio di Bari: era il 5 agosto del 1068.
Nella città pugliese si formarono due fazioni, una filonormanna, l’altra fedele all’impero bizantino che finì per prevalere. Così i baresi chiusero le porte della città, pronti a resistere e mandarono una richiesta di aiuto a Romano IV Diogene a Costantinopoli. Contemporaneamente rifiutarono ogni negoziato offerto da Roberto il Guiscardo.
Vista la situazione, l’imperatore Romano IV nominò un nuovo catapano d’Italia, Avartutele, lo fornì di una flotta, uomini e viveri e lo mandò in soccorso dei baresi. La flotta bizantina arrivò a Bari nei primi mesi del 1069. Intanto Roberto il Guiscardo vittoria dopo vittoria occupò alcuni centri della Puglia ma non tornò immediatamente a Bari, preferendo dirigersi verso Brindisi per aiutare l'assedio normanno di quella città. Nell’autunno 1070 Brindisi capitolò. La situazione per Bari si faceva critica: la Puglia era sempre più in mano ai normanni, la popolazione barese pativa la fame e le truppe normanne, pronte ad attaccare, erano sempre più numerose.
Per tentare di porre fine all’assedio, Avartutele ordì un complotto per assassinare Roberto il Guiscardo ma il piano fallì. Avartutele chiese allora aiuto a Costantinopoli. Ma l'impero non attraversava un buon momento: non aveva un esercito numeroso ed era minacciato ad Oriente e, in più, i suoi generali temevano i normanni, dai quali erano sempre stati sconfitti.
Romano IV riuscì ad armare comunque 20 navi e ne affidò il comando a Gozzelino, un ribelle normanno. A lui fu affiancato Stefano Paterano, nominato nuovo catapano d’Italia. Nel febbraio del 1071 le navi bizantine furono intercettate e disperse dai normanni. Gozzelino fu catturato, mentre Stefano Paterano riuscì fortuitamente ad entrare in città. Il nuovo catapano si rese subito conto che Bari non poteva resistere oltre e inviò una delegazione a parlamentare con i nemici: il 15 aprile 1071 Bari fu consegnata ai normanni ed Il giorno dopo, vigilia della domenica delle Palme, Roberto il Guiscardo entrò in città.
Paterano fu prima messo in prigionia, poi venne lasciato tornare a Costantinopoli, insieme ad altri superstiti. La caduta di Bari fu una catastrofe per l’impero bizantino che conobbe un periodo di grave crisi e inarrestabile decadenza: dopo 536 anni terminava la dominazione bizantina in Italia e iniziava quella normanna. L’ultimo tentativo di riconquista bizantina di Bari si ebbe tra il 1143 e il 1156, ma sempre con esiti disastrosi. Il sogno bizantino di questa città era finito per sempre.
Antonio A. – Fonte: Il Portale del sud.
#accaddeoggi #bizantini #normanni #bari
notizie dallo spazio da focus.it
Il primo catalogo dei pianeti più simili alla Terra
Tra le migliaia di pianeti lontani individuati da Kepler ce ne sono 20 che sembrano avere le condizioni adatte a ospitare la vita.
La ricerca permetterà di
approfondire le nostre conoscenze su 20 tra i pianeti più simili alla
Terra: capiremo così se sono abitabili.
A oggi sono 3.489 i pianeti scoperti
al di là del Sistema Solare. Alcuni ruotano in compagnia di altri
all’interno di un unico sistema planetario, altri invece sono stati
individuati come corpi singoli. È invece di circa un anno l’annuncio
della scoperta di un pianeta molto simile alla Terra, tant’è che venne
(impropriamente) definito pianeta gemello.
In realtà, per avere un vero gemello sarebbero necessari molti fattori concomitanti, non solo il fatto che si tratti di un pianeta solido (roccioso) o che ci sono buone probabilità che vi sia acqua liquida. Indispensabile, per esempio, è che abbia un’atmosfera simile alla nostra, un campo magnetico, l’alternanza delle stagioni e via dicendo.
Comunque sia, tra i tanti Kepler-452b è quello che possiamo etichettare come più simile Terra, e se facciamo qualche concessione non è l'unico. Adesso abbiamo infatti un catalogo di ben 20 pianeti simili al nostro, tra quelli individuati dal telescopio spaziale Kepler (Nasa), la cui missione scientifica è proprio quella di individuare pianeti extrasolari.
L’inizio della ricerca. L'analisi dei dati di Kepler ha permesso di restringere il campo con l'individuazione di 216 pianeti che si trovano nella zona abitabile del loro sistema solare, che per gli astronomi è la fascia all’interno della quale l’energia che arriva dalla stella permette di avere acqua allo stato liquido. All’interno del gruppo, 20 pianeti potrebbero avere altre somiglianze con la Terra. Spiega Stephen Kane (San Francisco State University), coordinatore della ricerca: «Il catalogo è il più aggiornato che abbiamo, ed è importante perché adesso le ricerche potranno concentrarsi su questi 20 pianeti per cercare di definire con maggiore precisione come sono fatti e verificare se sono realmente abitabili».
I pianeti individuati dal gruppo di Kane, non solo possono avere acqua liquida in circolazione, ma sono anche rocciosi e alcuni potrebbero avere un’atmosfera (a questo non ci sono però conferme). La ricerca prosegue, e informazioni aggiuntive potranno forse dirci se sono realmente abitabili.
In realtà, per avere un vero gemello sarebbero necessari molti fattori concomitanti, non solo il fatto che si tratti di un pianeta solido (roccioso) o che ci sono buone probabilità che vi sia acqua liquida. Indispensabile, per esempio, è che abbia un’atmosfera simile alla nostra, un campo magnetico, l’alternanza delle stagioni e via dicendo.
Comunque sia, tra i tanti Kepler-452b è quello che possiamo etichettare come più simile Terra, e se facciamo qualche concessione non è l'unico. Adesso abbiamo infatti un catalogo di ben 20 pianeti simili al nostro, tra quelli individuati dal telescopio spaziale Kepler (Nasa), la cui missione scientifica è proprio quella di individuare pianeti extrasolari.
L’inizio della ricerca. L'analisi dei dati di Kepler ha permesso di restringere il campo con l'individuazione di 216 pianeti che si trovano nella zona abitabile del loro sistema solare, che per gli astronomi è la fascia all’interno della quale l’energia che arriva dalla stella permette di avere acqua allo stato liquido. All’interno del gruppo, 20 pianeti potrebbero avere altre somiglianze con la Terra. Spiega Stephen Kane (San Francisco State University), coordinatore della ricerca: «Il catalogo è il più aggiornato che abbiamo, ed è importante perché adesso le ricerche potranno concentrarsi su questi 20 pianeti per cercare di definire con maggiore precisione come sono fatti e verificare se sono realmente abitabili».
I pianeti individuati dal gruppo di Kane, non solo possono avere acqua liquida in circolazione, ma sono anche rocciosi e alcuni potrebbero avere un’atmosfera (a questo non ci sono però conferme). La ricerca prosegue, e informazioni aggiuntive potranno forse dirci se sono realmente abitabili.
venerdì 5 agosto 2016
I 1000 quadri più belli di tutti i tempi-tintoretto (jacopo robusti)
Tintoretto (Jacopo Robusti)
Dipinti per la sala inferiore di San Rocco, "Santa Maria Egiziaca in meditazione", 1583-87
cm. 425 x 211, Scuola di San Rocco a Venezia.
Dipinti per la sala inferiore di San Rocco, "Santa Maria Egiziaca in meditazione", 1583-87
cm. 425 x 211, Scuola di San Rocco a Venezia.
Hubble Space Telescope The Boomerang Nebula
#ThrowbackThursday The Boomerang Nebula
Credit: NASA, ESA and The Hubble Heritage Team STScI/AURA
View larger image at: http://socsi.in/47eqV
Credit: NASA, ESA and The Hubble Heritage Team STScI/AURA
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#Throwbackthursday la nebulosa boomerang
Credit: NASA, ESA E L' HUBBLE HERITAGE TEAM STSCI / aura
Ingrandire l'immagine all'indirizzo: http://socsi.in/47eqV
Credit: NASA, ESA E L' HUBBLE HERITAGE TEAM STSCI / aura
Ingrandire l'immagine all'indirizzo: http://socsi.in/47eqV
#Throwbackthursday la nebulosa boomerang
all'indirizzo: http://socsi.in/47eqV
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giovedì 4 agosto 2016
mercoledì 3 agosto 2016
dA lescienze.it -blog-di beatrice mautino-cellulite.ecc.....
Le Scienze
La ceretta di Occam
Di cellulite e favole
«Tu fammi un solo esempio di una che conosciamo alla quale è andata bene»
«Vuoi un esempio? Vuoi che faccia un nome? Vuoi che ti dica un nome, insomma, uno qualunque?»
«Sì, uno. Me ne basta uno»
«Dio, che ossessione sono i nomi… quella granculo di Cerentola!»
«Vuoi un esempio? Vuoi che faccia un nome? Vuoi che ti dica un nome, insomma, uno qualunque?»
«Sì, uno. Me ne basta uno»
«Dio, che ossessione sono i nomi… quella granculo di Cerentola!»
.La
scena ce l’abbiamo in mente tutte noi che eravamo adolescenti tra gli
anni Ottanta e Novanta. O almeno, tutte quelle che come me sono
cresciute davanti alla tv e che su quell’idea del “voglio la favola,
Edward!” hanno impostato le loro relazioni amorose e conseguenti
fallimenti.
Sto parlando di Pretty Woman, il film che
vede una giovanissima Julia Roberts nei panni di una prostituta,
Vivian, che si innamora del belloccio e straricco Richard Gere, Edward.
Peripezie, incomprensioni, lacrime, ma alla fine l’amore trionfa
e Vivian la sua favola se la porta a casa.
Perché ve ne parlo? Perché quella scena
mi è tornata in mente mentre studiavo per questo post sulla cellulite.
Sì, proprio “l’incubo di molte donne”, quello che i giornali
scandalistici sbattono in copertina ogni estate come “Le star con la buccia d’arancia - CLICCA QUI!”.
E, come spesso accade con gli incubi, il marketing ci sguazza facendo
passare l’idea che sia, di volta in volta, una malattia, un’eccezione,
qualcosa di cui vergognarsi, un inestetismo da combattere con tutti i
mezzi e così via. E noi lì a spalmarci di creme, fasciarci come mummie,
prendere integratori, bere molta acqua, calare beveroni detossificanti e
sperare nel miracolo. Non tutte, eh. Io per esempio, sarà che non nuoto
e non sopporto il sole quindi il mare lo guardo giusto da lontano,
l’incubo cellulite non ce l’ho proprio mai avuto, però per darvi l’idea,
solo per le creme, escludendo quindi i trattamenti fisici, nel 2015
abbiamo speso 90 milioni di euro, ai quali si aggiungono i costi dei massaggi, dei macchinari utilizzati nei centri estetici e quelli della chirurgia.
Al di là del marketng, la realtà, però, è
quella di Pretty Woman e cioè che la cellulite ce l’abbiamo tutte,
magre o grasse, belle o brutte. Tutte meno un’unica fortunata su dieci,
quella granculo che se la scampa, anche se non sappiamo bene perché.
Le prime descrizioni della cellulite
risalgono alla metà dell’Ottocento. Non che prima non ce l’avessero. Ce
l’avevano, ma non le avevano dato un nome. Dobbiamo aspettare fino agli
anni Settanta del secolo scorso, cioè quando siamo nate noi cercatrici
seriali di favole, per averne finalmente una descrizione scientifica degna di questo nome.
I due autori dello studio, i ricercatori tedeschi Nürnberger e Müller, hanno analizzato i tessuti di 150 cadaveri e di 30 persone viventi, uomini e donne e sono arrivati alla conclusione che è “una malattia inventata”, attribuendo il classico aspetto a buccia d’arancia a due fattori: il volume maggiore delle cellule adipose nelle persone che hanno la cellulite rispetto a quelle che non ce l’hanno e le differenze nell’architettura tissutale sottocutanea, in pratica l’impalcatura a base di collagene che “tiene su” il pannicolo adiposo. Immaginatevelo come un materasso: avete la lana equamente distribuita a occupare tutto lo spazio disponibile, i maschi hanno le fibre di collagene intrecciate a formare una rete, le femmine, invece, ce le hanno perpendicolari, come le molle dei materassi, ancorate alle due superfici esterne a dar sostegno.
I due autori dello studio, i ricercatori tedeschi Nürnberger e Müller, hanno analizzato i tessuti di 150 cadaveri e di 30 persone viventi, uomini e donne e sono arrivati alla conclusione che è “una malattia inventata”, attribuendo il classico aspetto a buccia d’arancia a due fattori: il volume maggiore delle cellule adipose nelle persone che hanno la cellulite rispetto a quelle che non ce l’hanno e le differenze nell’architettura tissutale sottocutanea, in pratica l’impalcatura a base di collagene che “tiene su” il pannicolo adiposo. Immaginatevelo come un materasso: avete la lana equamente distribuita a occupare tutto lo spazio disponibile, i maschi hanno le fibre di collagene intrecciate a formare una rete, le femmine, invece, ce le hanno perpendicolari, come le molle dei materassi, ancorate alle due superfici esterne a dar sostegno.
Se
aumentate la quantità di lana, ottenete un materasso con gobbe più
pronunciate. Questo è ciò che avviene anche nelle nostre cosce, nelle
quali i globuli di grasso occupano tutto lo spazio tra l’impalcatura
fibrosa di collagene ancorata alla pelle. Se aumentano di dimensioni, le
gobbette si accentuano. Così:
Quindi non è tanto questione di
magrezza e grassezza. La cellulite viene anche alle magre e magrissime.
“Anche alle modelle” mi diceva l’altra sera una persona che per hobby fa
il giurato ai concorsi di bellezza. “Si spalmano il cerone e via in
passerella”.
Ma se tutte abbiamo il collagene messo in
quel modo lì, perché alcune se la scampano e altre invece hanno la
pelle che sembra una pista per le biglie?
La risposta vera è che non si sa. Ci sono molte ipotesi
e molte scuole di pensiero che vanno dalle alterazioni del microcircolo
sanguigno, all’influenza dei fattori ormonali, allo stile di vita
sedentario e a molto altro. Di sicuro c’entra la genetica, anche quella
di popolazioni: le donne asiatiche e africane mediamente hanno meno
cellulite di quelle occidentali. E anche fra le occidentali c’è chi ce
l’ha di più sulle cosce (noi mediterranee) e chi più sull’addome (le
nordiche). Un nuovo filone di studi si
sta concentrando sulla presenza di polimorfismi (cioè, mutazioni) in
particolari geni che hanno a che fare con la regolazione ormonale (da
cui è subito spuntato un “test genetico per rivelare la tendenza alla
cellulite” con relative "cure" pronte all'uso, ovviamente)
Insomma, si sa che c’è qualcosa dentro di
noi che ne favorisce la formazione a prescindere da quel che facciamo e
che difficilmente potrà essere modificato con una semplice crema. Poi
lo stile di vita, la dieta, lo stress, lo sport, eccetera possono
influire positivamente o negativamente, ma il vero punto della questione
è che in questo contesto di incertezza è difficile sviluppare soluzioni
efficaci e misurarle. Qualcuno ci ha provato, però. Esiste una
"evidence based cosmetics", cioè la cosmetica basata sulle prove che,
ispirandosi all'equivalente medico, punta a misurare l'efficacia dei
tanti trattamenti cosmetici in un settore in cui, come potete
immaginare, le affermazioni prive di fondamento la fanno da padrone. I
risultati? Bè, niente favola qui, purtroppo. Ma ci torneremo perché
meritano molto spazio.
Alla prossima,
Beatrice Mautino
Amanti della storia -LA STORIA DI JOHANN “RUKELIE” TROLLMANN.(
LA STORIA DI JOHANN “RUKELIE” TROLLMANN.
Johann Trollmann era un pugile straordinario. Un pugile tedesco nato da una famiglia sinti. Lo avevano soprannominato Rukelie, “albero" per la bellezza del suo fisico atletico. Per lui stare sul ring era come essere su un palcoscenico, i suoi movimenti veloci e tecnicamente impeccabili lo avevano eletto a campione della “noble art”. Uno stile nuovo, particolare, tutto suo, come una danza che molti anni dopo avrebbe caratterizzato anche il campione olimpico e poi del mondo Cassius Clay, alias Muhammad Alì.
La vita di Rukelie e il nazionalsocialismo si incrociarono la notte del 9 giugno 1933 nel match per la corona tedesca dei pesi medi. A contendergli il titolo c’era Adolf Witt. In sei round lo zingaro stende l'ariano. Per Rukelie è la vittoria più bella, la più importante e prestigiosa. Ma dal pubblico si leva la voce di Georg Radamm, gerarca nazista e presidente dell'associazione dei pugili tedeschi.
Ordina agli arbitri di far terminare la contesa in parità: la superiorità fisica della razza ariana non poteva essere presa a pugni da uno zingaro. Ma il pubblico rumoreggia, protesta, sa che Trollmann è il vincitore e poco dopo diventa il nuovo campione tedesco dei pesi medi a furor di popolo. Gli gettano al collo la corona e lui piange di felicità.
Qualche giorno dopo la vittoria, in una lettera della federazione, Trollmann legge che non è più il detentore del titolo perché le lacrime "non sono degne di un vero pugile". La corona dei medi è nuovamente libera. Prossimo incontro fissato per il 21 luglio. Sul ring Trollmann si trova di fronte Gustave Eder, un altro colosso ariano. Ma lo zingaro è il più forte, non dovrebbe avere problemi.
Hitler teneva particolarmente alla boxe. In Mein Kampf scriveva: “Nessun altro sport desta un così grande spirito d’assalto, esige così fulminea decisione, rende forte e flessibile il corpo”. Il ring diventa un manifesto di propaganda razziale. È tollerabile che uno zingaro batta un puro ariano? I movimenti sul ring di Trollmann sono definiti “scimmieschi”, “animaleschi”, e il suo stile “effeminato”.
Quindi le restrizioni delle SS arrivano ancor prima dell'inizio del match. Rukelie è costretto a non danzare, a non esprimere la sua boxe, deve rimanere al centro del ring e "combattere" come un ariano altrimenti può dire addio alla licenza di pugile. Lui, ciuffo moro, occhi scuri e pelle ambrata capisce tutto e si presenta con capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di farina, una perfetta caricatura dell'ariano. In cinque round Rukelie calpesta un'ideologia vuota e malata con il coraggio di chi è in grado di ironizzare anche nella tragedia, ma subisce la sconfitta definitiva.
“Me l’hanno fatto capire in mille modi: un sinti non può diventare campione di Germania. E’ stata una progressione ad hoc. Quando ero il migliore dei dilettanti mi tagliarono fuori dalle Olimpiadi, da professionista mi impediscono di fare carriera. Ormai mi hanno incastrato.” Va a vivere a Berlino, conosce e sposa Olga nel 1935. Hanno una figlia, Rita. Ormai Trollmann combatte solo per pochi spiccioli nelle fiere di paese, nei circhi
La vita per gli zingari si fa sempre più difficile e, per evitare guai alla sua famiglia, Trollman divorzia nel settembre 1938. Accetta di essere sterilizzato per evitare l’internamento. Nel novembre ‘39 viene richiamato dalla Wermacht e inviato sul fronte russo. Ferito, ritorna in Germania per una licenza, nel ’42. Ma la Wermacht ormai non voleva più zingari tra le proprie fila, così fu prelevato dalla Gestapo e incarcerato ad Hannover ed in ottobre smistato al campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, triangolo marrone e numero 9841.
Il 9 febbraio 1943 si trova all'esterno del campo, è il suo turno di lavoro e non si accorge che il rumore dei passi di Emil Cornelius diventa sempre più vicino. Quel kapò sta meditando la vendetta perché due giorni prima è stato messo al tappeto proprio da Trollmann in un combattimento organizzato davanti a tutti i prigionieri e alle SS del lager. Uno sgarbo troppo grande. Da uno zingaro poi. Una pallottola lo condanna a essere un dimenticato dalla storia. Trollmann muore quel 9 febbraio 1943. Quattro mesi dopo, ad Auschwitz, morirà suo fratello Heinrich, anche lui pugile.
La sua morte viene spacciata per un incidente ma sarà un altro prigioniero, Robert Landsberger, testimone oculare dell’omicidio, a raccontare la verità, a guerra finita. Nel 2003 la federazione tedesca, a seguito di un forte movimento d’opinione, consegna a Rita, la figlia di Trollmann, la cintura da campione tedesco dei mediomassimi. Ad Hannover una piccola strada è a lui intitolata, una targa lo ricorda ad Amburgo e in un parco del quartiere di Kreuzberg, a Berlino, dal 2010 c’è anche un ring vuoto, un monumento dedicato a “Rukelie” Trollmann.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Corriere della Sera
#sport #pugilato #nazismo #sinti #trollmann #boxe
Johann Trollmann era un pugile straordinario. Un pugile tedesco nato da una famiglia sinti. Lo avevano soprannominato Rukelie, “albero" per la bellezza del suo fisico atletico. Per lui stare sul ring era come essere su un palcoscenico, i suoi movimenti veloci e tecnicamente impeccabili lo avevano eletto a campione della “noble art”. Uno stile nuovo, particolare, tutto suo, come una danza che molti anni dopo avrebbe caratterizzato anche il campione olimpico e poi del mondo Cassius Clay, alias Muhammad Alì.
La vita di Rukelie e il nazionalsocialismo si incrociarono la notte del 9 giugno 1933 nel match per la corona tedesca dei pesi medi. A contendergli il titolo c’era Adolf Witt. In sei round lo zingaro stende l'ariano. Per Rukelie è la vittoria più bella, la più importante e prestigiosa. Ma dal pubblico si leva la voce di Georg Radamm, gerarca nazista e presidente dell'associazione dei pugili tedeschi.
Ordina agli arbitri di far terminare la contesa in parità: la superiorità fisica della razza ariana non poteva essere presa a pugni da uno zingaro. Ma il pubblico rumoreggia, protesta, sa che Trollmann è il vincitore e poco dopo diventa il nuovo campione tedesco dei pesi medi a furor di popolo. Gli gettano al collo la corona e lui piange di felicità.
Qualche giorno dopo la vittoria, in una lettera della federazione, Trollmann legge che non è più il detentore del titolo perché le lacrime "non sono degne di un vero pugile". La corona dei medi è nuovamente libera. Prossimo incontro fissato per il 21 luglio. Sul ring Trollmann si trova di fronte Gustave Eder, un altro colosso ariano. Ma lo zingaro è il più forte, non dovrebbe avere problemi.
Hitler teneva particolarmente alla boxe. In Mein Kampf scriveva: “Nessun altro sport desta un così grande spirito d’assalto, esige così fulminea decisione, rende forte e flessibile il corpo”. Il ring diventa un manifesto di propaganda razziale. È tollerabile che uno zingaro batta un puro ariano? I movimenti sul ring di Trollmann sono definiti “scimmieschi”, “animaleschi”, e il suo stile “effeminato”.
Quindi le restrizioni delle SS arrivano ancor prima dell'inizio del match. Rukelie è costretto a non danzare, a non esprimere la sua boxe, deve rimanere al centro del ring e "combattere" come un ariano altrimenti può dire addio alla licenza di pugile. Lui, ciuffo moro, occhi scuri e pelle ambrata capisce tutto e si presenta con capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di farina, una perfetta caricatura dell'ariano. In cinque round Rukelie calpesta un'ideologia vuota e malata con il coraggio di chi è in grado di ironizzare anche nella tragedia, ma subisce la sconfitta definitiva.
“Me l’hanno fatto capire in mille modi: un sinti non può diventare campione di Germania. E’ stata una progressione ad hoc. Quando ero il migliore dei dilettanti mi tagliarono fuori dalle Olimpiadi, da professionista mi impediscono di fare carriera. Ormai mi hanno incastrato.” Va a vivere a Berlino, conosce e sposa Olga nel 1935. Hanno una figlia, Rita. Ormai Trollmann combatte solo per pochi spiccioli nelle fiere di paese, nei circhi
La vita per gli zingari si fa sempre più difficile e, per evitare guai alla sua famiglia, Trollman divorzia nel settembre 1938. Accetta di essere sterilizzato per evitare l’internamento. Nel novembre ‘39 viene richiamato dalla Wermacht e inviato sul fronte russo. Ferito, ritorna in Germania per una licenza, nel ’42. Ma la Wermacht ormai non voleva più zingari tra le proprie fila, così fu prelevato dalla Gestapo e incarcerato ad Hannover ed in ottobre smistato al campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, triangolo marrone e numero 9841.
Il 9 febbraio 1943 si trova all'esterno del campo, è il suo turno di lavoro e non si accorge che il rumore dei passi di Emil Cornelius diventa sempre più vicino. Quel kapò sta meditando la vendetta perché due giorni prima è stato messo al tappeto proprio da Trollmann in un combattimento organizzato davanti a tutti i prigionieri e alle SS del lager. Uno sgarbo troppo grande. Da uno zingaro poi. Una pallottola lo condanna a essere un dimenticato dalla storia. Trollmann muore quel 9 febbraio 1943. Quattro mesi dopo, ad Auschwitz, morirà suo fratello Heinrich, anche lui pugile.
La sua morte viene spacciata per un incidente ma sarà un altro prigioniero, Robert Landsberger, testimone oculare dell’omicidio, a raccontare la verità, a guerra finita. Nel 2003 la federazione tedesca, a seguito di un forte movimento d’opinione, consegna a Rita, la figlia di Trollmann, la cintura da campione tedesco dei mediomassimi. Ad Hannover una piccola strada è a lui intitolata, una targa lo ricorda ad Amburgo e in un parco del quartiere di Kreuzberg, a Berlino, dal 2010 c’è anche un ring vuoto, un monumento dedicato a “Rukelie” Trollmann.
Antonio A. – Fonte: Repubblica / Corriere della Sera
#sport #pugilato #nazismo #sinti #trollmann #boxe
martedì 2 agosto 2016
da Hubble Space Telescope
ESA/Hubble #Flashback: The galaxy cluster MACS J1206
Credit: NASA, ESA, M. Postman (STScI) and the CLASH Team
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Esa / hubble #flashback: l'ammasso di galassie macs j1206
Credit: NASA, ESA, m. Il postino (stsci) e la squadra di clash
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lunedì 1 agosto 2016
la leggenda del commandante diavolo-da gli amanti della storia
AMEDEO GUILLET: LA LEGGENDA DEL “COMANDANTE DIAVOLO”.
Un uomo dai mille volti: ufficiale, agente segreto, ambasciatore, stalliere, acquaiolo, scaricatore di porto ma, innanzitutto, guerrigliero. Un uomo camaleontico, imprevedibile e temerario che cambia identità, patria e lingua.
La sua epopea comincia in Africa orientale prima della seconda guerra mondiale quando, giovane tenente, cattura una pericolosissima banda di guerriglieri fedeli al Negus. Da Roma riceve l'ordine di giustiziarli, ma quando vede i volti fieri di quei nemici non solo decide di non ucciderli ma propone loro di arruolarsi nei suoi reparti.
Il duca d'Aosta copre questa sua decisione e propone inoltre di creare un'intera cavalleria indigena, agile e di impatto, al seguito di Amedeo Guillet. Questi nel giro di due mesi organizza e costituisce la nuova formazione armata formata da combattenti diversissimi per etnia e religione e che soltanto un grande conoscitore di uomini come lui può tenere uniti. Ma mentre sta completando l'addestramento il 10 giugno del '40 l'Italia entra in guerra e in Africa la situazione si fa subito difficile: gli Inglesi penetrano velocemente in Libia.
All'inizio del '41 l'avanzata dell'esercito inglese sta ormai travolgendo le truppe italiane in Libia orientale. Guillet per difendere il fronte italiano è pronto a tutto: gli viene chiesto di usare i suoi reparti per rallentare l'avanzata bbritannica e dare tempo agli Italiani di organizzarsi. Fa dunque un'azione inaspettata, geniale ma spericolata: decide di attaccare il nemico a cavallo nel bel mezzo dello schieramento, contando sul fatto che mitragliatrici e artiglieria nemica non avrebbero potuto sparare per non colpire la loro stessa fanteria.
Dopo ore di confusione 10mila soldati italiani si erano ormai salvati sulle montagne grazie ad un'azione ricordata ancora oggi come una delle pagine più valorose della storia militare italiana. Guillet viene ricordato come il comandante che ha guidato una cavalleria contro i carri armati, e ha vinto. Coraggioso, sprezzante del pericolo, fedele agli alleati e rispettoso del nemico. Nell’immaginario collettivo diventa il “Comandante Diavolo” e dal quel momento inizia la sua leggenda.
Dopo la firma della resa, secondo il diritto internazionale, non si può continuare a combattere ma Guillet ha in mente una strategia precisa: sfiancare il nemico e fargli credere che gli Italiani sono ancora vivi ed in grado di impegnarli. Entra in clandestinità, è’ costretto a nascondersi, a camuffare la sua identità. Smessa l'uniforme indossa il turbante e il tipico abbigliamento indigeno , diventa Ahmed Abdallah al Redai aiutato anche dai suoi tratti mediterranei e dalla conoscenza perfetta della lingua araba.
La sua trasformazione non è solo esteriore: inizia a pregare 5 volte al giorno, a vivere nella comunità musulmana in modo completamente mimetico. Non è più un Italiano, non è più un ufficiale, non è più un cattolico. È un indigeno tra gli indigeni e la sua figura ricorda molto quella di Lawrence d'Arabia.
Nascosto dietro la nuova identità inizia, con i suoi indigeni, una lotta senza quartiere contro gli Inglesi, sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti e saccheggiando depositi militari. Le azioni della banda inizialmente vengono considerate opera di fuorilegge locali, di banditi del deserto.
Ma con il tempo si intuisce che dietro a tutto ciò c’è Amedeo Guillet e subito sulle sue gesta cala il velo della censura. Diventa oggetto di un rapporto top secret dell' intelligence inglese che inoltre fissa sulla sua testa una cospicua taglia. Ma non serve. E talmente abile che, per meglio spiare il nemico, riesce a servire a tavola degli ufficiali inglesi camuffato da domestico indigeno.
Nella primavera del '41, dopo la disfatta italiana il Negus Haile Selassie torna in Etiopia e con l'aiuto degli Inglesi cerca di annettere anche l'Eritrea. Dall'altra parte però Guillet cerca di attrarre alla sua causa proprio gli Eritrei facendo leva sui loro sentimenti anti-etiopici e mettendoli in luce circa il pericolo che possono rappresentare gli Inglesi.
Alla fine del '41 arriva nel porto di Hodeida nello Yemen ma per i suoi modi raffinati e la lingua gli Yemeniti lo scambiano per una spia britannica e lo incarcerano. Gli Inglesi chiedono la sua estradizione cosa che però insospettisce molto gli Yemeniti. Il sovrano quindi gli concede udienza e ascolta tutta la sua storia. Ne rimane talmente affascinato che gli propone di rimanere, prendendolo sotto la sua protezione. Lo fa curare, gli dà una casa e uno stipendio da colonnello. Nel '42 gli Inglesi mettono a disposizione una nave della Croce Rossa per tutti quegli Italiani desiderosi di tornare in patria. Guillet, aiutato dai suoi vecchi amici del porto, riesce a imbarcarsi furtivamente e per tutto il viaggio se ne sta quasi nascosto fingendosi pazzo.
Il 2 settembre del ’43 viene promosso generale. Le sue conoscenze linguistiche lo rendono perfetto per il lavoro di intelligence. Nel Dopoguerra, Guillet inizia a la carriera diplomatica, che prosegue per quasi trent'anni e che lo vede diventare ambasciatore d'Italia in vari Paesi. A seguirli sono sua moglie e la sua fortuna: sopravvive a due incidenti aerei nello stesso giorno e a due colpi di Stato di cui è testimone in Yemen e in Marocco. In quest'ultimo paese durante il ricevimento ufficiale teatro del tentativo di colpo di Stato riuscì a salvare la vita all’ambasciatore tedesco, cosa che gli valse la più alta onorificenza della Repubblica Federale Tedesca.
Nel 1975 è in pensione per raggiunti limiti di età e va a vivere in Irlanda. Se in Italia in pochi conoscevano la sua storia, in Irlanda viene accolto con grande entusiasmo e ritrova anche il suoi vecchi nemici-ammiratori Max Harari e Vittorio Dan Segre, che diventa il suo biografo. Nel novembre del 2000 il Capo dello Stato italiano Carlo Azeglio Ciampi ha conferito al generale Amedeo Guillet la massima onorificenza di 'Cavaliere di Gran Croce'.
Muore a Roma il 16 giugno 2010, all'età di 101 anni.
Antonio A. – Fonte: BBC History / La storia siamo noi.
#secondaguerramondiale #colonialismo #amedeogu
Un uomo dai mille volti: ufficiale, agente segreto, ambasciatore, stalliere, acquaiolo, scaricatore di porto ma, innanzitutto, guerrigliero. Un uomo camaleontico, imprevedibile e temerario che cambia identità, patria e lingua.
La sua epopea comincia in Africa orientale prima della seconda guerra mondiale quando, giovane tenente, cattura una pericolosissima banda di guerriglieri fedeli al Negus. Da Roma riceve l'ordine di giustiziarli, ma quando vede i volti fieri di quei nemici non solo decide di non ucciderli ma propone loro di arruolarsi nei suoi reparti.
Il duca d'Aosta copre questa sua decisione e propone inoltre di creare un'intera cavalleria indigena, agile e di impatto, al seguito di Amedeo Guillet. Questi nel giro di due mesi organizza e costituisce la nuova formazione armata formata da combattenti diversissimi per etnia e religione e che soltanto un grande conoscitore di uomini come lui può tenere uniti. Ma mentre sta completando l'addestramento il 10 giugno del '40 l'Italia entra in guerra e in Africa la situazione si fa subito difficile: gli Inglesi penetrano velocemente in Libia.
All'inizio del '41 l'avanzata dell'esercito inglese sta ormai travolgendo le truppe italiane in Libia orientale. Guillet per difendere il fronte italiano è pronto a tutto: gli viene chiesto di usare i suoi reparti per rallentare l'avanzata bbritannica e dare tempo agli Italiani di organizzarsi. Fa dunque un'azione inaspettata, geniale ma spericolata: decide di attaccare il nemico a cavallo nel bel mezzo dello schieramento, contando sul fatto che mitragliatrici e artiglieria nemica non avrebbero potuto sparare per non colpire la loro stessa fanteria.
Dopo ore di confusione 10mila soldati italiani si erano ormai salvati sulle montagne grazie ad un'azione ricordata ancora oggi come una delle pagine più valorose della storia militare italiana. Guillet viene ricordato come il comandante che ha guidato una cavalleria contro i carri armati, e ha vinto. Coraggioso, sprezzante del pericolo, fedele agli alleati e rispettoso del nemico. Nell’immaginario collettivo diventa il “Comandante Diavolo” e dal quel momento inizia la sua leggenda.
Dopo la firma della resa, secondo il diritto internazionale, non si può continuare a combattere ma Guillet ha in mente una strategia precisa: sfiancare il nemico e fargli credere che gli Italiani sono ancora vivi ed in grado di impegnarli. Entra in clandestinità, è’ costretto a nascondersi, a camuffare la sua identità. Smessa l'uniforme indossa il turbante e il tipico abbigliamento indigeno , diventa Ahmed Abdallah al Redai aiutato anche dai suoi tratti mediterranei e dalla conoscenza perfetta della lingua araba.
La sua trasformazione non è solo esteriore: inizia a pregare 5 volte al giorno, a vivere nella comunità musulmana in modo completamente mimetico. Non è più un Italiano, non è più un ufficiale, non è più un cattolico. È un indigeno tra gli indigeni e la sua figura ricorda molto quella di Lawrence d'Arabia.
Nascosto dietro la nuova identità inizia, con i suoi indigeni, una lotta senza quartiere contro gli Inglesi, sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti e saccheggiando depositi militari. Le azioni della banda inizialmente vengono considerate opera di fuorilegge locali, di banditi del deserto.
Ma con il tempo si intuisce che dietro a tutto ciò c’è Amedeo Guillet e subito sulle sue gesta cala il velo della censura. Diventa oggetto di un rapporto top secret dell' intelligence inglese che inoltre fissa sulla sua testa una cospicua taglia. Ma non serve. E talmente abile che, per meglio spiare il nemico, riesce a servire a tavola degli ufficiali inglesi camuffato da domestico indigeno.
Nella primavera del '41, dopo la disfatta italiana il Negus Haile Selassie torna in Etiopia e con l'aiuto degli Inglesi cerca di annettere anche l'Eritrea. Dall'altra parte però Guillet cerca di attrarre alla sua causa proprio gli Eritrei facendo leva sui loro sentimenti anti-etiopici e mettendoli in luce circa il pericolo che possono rappresentare gli Inglesi.
Alla fine del '41 arriva nel porto di Hodeida nello Yemen ma per i suoi modi raffinati e la lingua gli Yemeniti lo scambiano per una spia britannica e lo incarcerano. Gli Inglesi chiedono la sua estradizione cosa che però insospettisce molto gli Yemeniti. Il sovrano quindi gli concede udienza e ascolta tutta la sua storia. Ne rimane talmente affascinato che gli propone di rimanere, prendendolo sotto la sua protezione. Lo fa curare, gli dà una casa e uno stipendio da colonnello. Nel '42 gli Inglesi mettono a disposizione una nave della Croce Rossa per tutti quegli Italiani desiderosi di tornare in patria. Guillet, aiutato dai suoi vecchi amici del porto, riesce a imbarcarsi furtivamente e per tutto il viaggio se ne sta quasi nascosto fingendosi pazzo.
Il 2 settembre del ’43 viene promosso generale. Le sue conoscenze linguistiche lo rendono perfetto per il lavoro di intelligence. Nel Dopoguerra, Guillet inizia a la carriera diplomatica, che prosegue per quasi trent'anni e che lo vede diventare ambasciatore d'Italia in vari Paesi. A seguirli sono sua moglie e la sua fortuna: sopravvive a due incidenti aerei nello stesso giorno e a due colpi di Stato di cui è testimone in Yemen e in Marocco. In quest'ultimo paese durante il ricevimento ufficiale teatro del tentativo di colpo di Stato riuscì a salvare la vita all’ambasciatore tedesco, cosa che gli valse la più alta onorificenza della Repubblica Federale Tedesca.
Nel 1975 è in pensione per raggiunti limiti di età e va a vivere in Irlanda. Se in Italia in pochi conoscevano la sua storia, in Irlanda viene accolto con grande entusiasmo e ritrova anche il suoi vecchi nemici-ammiratori Max Harari e Vittorio Dan Segre, che diventa il suo biografo. Nel novembre del 2000 il Capo dello Stato italiano Carlo Azeglio Ciampi ha conferito al generale Amedeo Guillet la massima onorificenza di 'Cavaliere di Gran Croce'.
Muore a Roma il 16 giugno 2010, all'età di 101 anni.
Antonio A. – Fonte: BBC History / La storia siamo noi.
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robot lumaca bioibrido-da Le Scienze blogo (lescienze ,it)
Noi e i robot
Il robot-lumaca "bioibrido". Una nuova frontiera?
Muscolo e collagene
Non se ne è parlato tanto, eppure, a mio parere (e mi piacerebbe molto sentire anche il vostro) questo robot (lo potete vedere nella foto qui sotto) apre nuove frontiere sia alla ricerca che alla discussione sui limiti e i confini etici della ricerca.
Ma ecco come è stato realizzato, in base alla descrizione che ne fanno gli stessi esperti della Case Western Reserve. «Abbiamo creato – ha detto il professor Roger Quinn – un robot che può svolgere compiti diversi da quelli che possono portare a termine un automa creato dall'uomo o un animale». La scelta è ricaduta sulla lumaca di mare perché si tratta di un animale molto "robusto", i cui tessuti e cellule sono in grado di sopportare notevoli sbalzi di temperatura e modifiche della salinità dell'acqua.
Victoria Webster ha spiegato perché si è scelto di prelevare parti dell'animale: «Per noi è importante che il robot sia in grado di interagire con l'ambiente e adattarvisi. E uno dei principali problemi, nella robotica tradizionale, che rendono difficile raggiungere questo risultato è la rigidità degli attuatori», cioè di quelle parti che imprimono il movimento. Inizialmente si è pensato di utilizzare cellule dei muscoli dell'animale, che portano con sé la loro riserva di energia, sono "morbide", sono più sicure rispetto a strutture meccaniche e hanno anche un rapporto peso-potenza migliore. Poi però si è visto che tutto il muscolo I2 dell'area buccale della lumaca di mare si prestava perfettamente così com'era a essere prelevato e utilizzato. Si tratta di un muscolo a forma di Y, che si biforca. È stato connesso alla struttura rigida del robot, stampata in un polimero speciale, e imprime il movimento alla macchina contraendosi e rilassandosi per effetto di una debole corrente elettrica emessa da una piccola batteria.
La prossima versione
L'idea per una prossima evoluzione è utilizzare il muscolo insieme ai gangli che lo controllano, che possono utilizzare sia stimoli elettrici che chimici per indurre le terminazioni nervose a contrarre il muscolo. Sempre secondo Webster, «insieme ai suoi gangli, il muscolo è in grado di compiere movimenti più complessi rispetto a quelli governati con un controllo umano. Ed è anche in grado di imparare». Il team è quindi al lavoro per realizzare un robot completamente organico, utilizzando collagene sempre prelevato dall'animale, che il gruppo di studio sta imparando ad allineare e compattare, utilizzando piccole scariche elettriche, per dargli la forma voluta e "costruire" una struttura esterna leggera, flessibile, ma robusta.
Robot di questo tipo potrebbero essere utilizzati per il controllo della qualità dell'acqua e potrebbero essere rilasciati in sciami senza doversi preoccupare di recuperarli, perché anche se andassero persi non inquinerebbero con metalli o batterie.
Scienza di Frankenstein?
Pensando a questo studio mi è venuto alla mente Galvani con le sue rane. E in effetti è sconfinato l'elenco di ricerche che si sono basate su parti di animali per giungere a risultati. Ancora oggi tutto il capitolo sulla sperimentazione animale è aperto e genera discussione. Qui però il discorso è un po' diverso, perché si impiegano parti di animali per creare nuove strutture che, sotto certi aspetti, sono "viventi", ma completamente diverse rispetto alla loro forma e destinazione originarie.
Ci vedo un po' di scienza di Frankenstein, in tutto questo, con tutto il fascino ma anche con tutti i dubbi etici che questo comporta. Studiare tessuti di viventi può essere utile, per esempio, per crearne di artificiali con caratteristiche molto simili. E con particolari colture cellulari si può arrivare a creare biomateriali senza per questo prelevarli direttamente dai viventi. A rigori, quello realizzato a Cleveland non è neanche il primo robot "bioibrido", perché altri ne sono stati realizzati, a livello microscopico, utilizzando cellule o batteri. Ma, se un robot come questo diventasse "di serie", sarebbe giusto utilizzare le lumache di mare come "riserva" di parti da cannibalizzare per fare nuovi robot? Potremo spingerci anche a utilizzare altre specie, magari non soltanto invertebrati, per creare biorobot "viventi"?
Del resto, già lo facciamo, e da sempre, di utilizzare specie animali come fonte di prelievo, di cibo, di materiali, di organi. Allargare questa pratica anche alla robotica verrebbe accettato o rifiutato? Secondo me la lumaca robot della Case University è molto più importante per il fatto di entrare in questo territorio ignoto che per quello che realmente è in grado di fare. Voi che ne pensate?
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