Scienza in cucina
Quel mostro genetico chiamato frumento
Quando si parla di biotecnologie in campo agrario, uno degli
aspetti che più ne ostacola l’accettazione, almeno a livello
psicologico, è la capacità di trasferire geni tra specie diverse creando
incroci ritenuti “impossibili” in natura. “Contro natura”. Non tutti
sanno però che è proprio grazie ad un meccanismo simile se possiamo
avere il nostro pane quotidiano, per non parlare della pasta. Dovete
sapere infatti che il grano tenero con cui facciamo il pane e il grano
duro con cui produciamo la pasta, ma anche molti grani «minori» che si
trovano quasi solo nei supermercati del "naturale", sono parte di un
unico albero genealogico, nipoti odierni di un’evoluzione genetica
iniziata più di 300.000 anni fa che, partendo da un progenitore
selvatico, ha mescolato e aggiunto via via interi genomi appartenenti a
specie diverse, generandone di nuove.
La “mezzaluna fertile” è la regione che comprende, al giorno d’oggi, Israele, la Giordania, il Libano, la Siria occidentale, parte della Turchia e si estende, tra il Tigri e l’Eufrate, in Iraq e nell’Ovest dell’Iran. Qui, 12.000 anni fa, un piccolo gruppo di uomini ha iniziato a domesticare specie vegetali selvatiche.
Questo processo, relativamente breve, di selezione artificiale ha trasformato il pianeta in un enorme esperimento evoluzionistico di adattamento, selezione e speciazione. Ma ha anche reso le piante dipendenti dall’uomo, capaci di sopravvivere solo se coltivate in condizioni controllate. La domesticazione infatti è uno dei primi atti «contro natura» che la nostra specie abbia compiuto. Domesticare piante e animali selvatici significa privilegiare i caratteri utili all’uomo (come, per esempio, la grandezza di semi e frutti nelle piante o la docilità nel caso degli animali) eliminando quei caratteri che permettono loro di vivere allo stato selvatico. Domesticare, di fatto, vuol dire appiattire la variabilità genetica: per esempio nei vegetali si sono privilegiati i caratteri, e quindi i geni, legati al sapore che l’uomo ritiene gradevole, eliminando i geni responsabili della produzione di sostanze sgradevoli o tossiche che però spesso avevano la funzione di allontanare i parassiti e gli insetti in una sorta di guerra chimica «naturale». Una pianta che non riesce più a sopravvivere in natura è “naturale”?
La famiglia dei grani
La storia dei grani, molte specie diverse del genere Triticum, è affascinante. Tutto ha inizio nella zona montuosa del Karacadag, nel sudest della Turchia con due specie selvatiche, il Triticum boeoticum e il Triticum urartu.
Circa 10.000 anni, i nostri avi domesticarono il T. boeoticum dando vita alla specie che è tornata in auge negli ultimi anni tra gli appassionati di panificazione: il T. monococcum chiamato comunemente farro monococco.
Ben prima dell’invenzione dell’agricoltura, tra i 300.000 e i 500.000 anni fa, l’altra componente selvatica della famiglia dei Triticum, il T.urartu, subiva un evento genetico che, se pensiamo semplicisticamente alle specie viventi come entità immutabili, non sarebbe mai potuto avvenire. Il suo intero genoma si è fuso con quello di una graminacea, un'erbaccia, la Aegilops speltoides, per generare il Triticum dicoccoides o farro selvatico: una nuova specie selvatica che conteneva tutti i geni di entrambi i donatori e il doppio dei loro cromosomi. Questo farro selvatico cresce ancora spontaneo in Israele, Turchia e altri paesi.
La loro è stata una fusione «contro natura», inusuale per due motivi: il primo è che coinvolge membri non solo di due specie diverse, ma addirittura di due generi differenti – come se fosse un incrocio tra un gatto e un cavallo – il secondo è perché A. speltoides dona interamente il suo genoma a T. urartu e non solamente la metà, come in un comune incrocio sessuale tra membri della stessa specie. Dall’unione nasce il farro selvatico o T. dicoccoides, una nuova specie con il doppio dei cromosomi dei genitori. Loro avevano due copie per ogni cromosoma, proprio come noi esseri umani, erano cioè diploidi, mentre lui di copie ne ha quattro per ogni cromosoma, quindi è "tetraploide". Anomalie nel numero di cromosomi negli animali portano generalmente alla morte o allo sviluppo di gravissime malattie, mentre per le piante sono abbastanza comuni. Anzi, in natura questo tipo di modifica genetica genera spesso nuove specie.
La selezione graduale del farro selvatico generò, circa 10.000 anni fa, il Triticum dicoccum, il farro coltivato, il grano principale dell’agricoltura del neolitico. Usato per fare pane e birra, questo farro era il grano dei faraoni e degli antichi romani. Una serie di mutazioni genetiche casuali seguite da selezioni hanno trasformato il farro in altre specie tra cui la più importante per noi italiani è sicuramente il grano duro, il Triticum durum con cui produciamo la pasta.
La nascita di una nuova specie
Circa 8000/9.000 anni fa, nella regione compresa tra l’Armenia e il Sudovest del mar Caspio, avvenne un secondo evento genetico “impossibile”: il T.dicoccum inglobò completamente il genoma di un’altra pianta erbacea, l’Aegilops tauschii, per generare il Triticum spelta, o farro spelta. In seguito, anche se i dettagli sono ancora da definire, una serie di ulteriori modifiche genetiche ha portato al nostro amato Triticum aestivum: il grano tenero con cui facciamo il pane e la pizza. È stato proprio il genoma donato da A.tauschii a migliorare le qualità panificatorie della farina di frumento tenero, e ha anche permesso la coltivazione in climi più freddi e più a nord, tant’è che ancora oggi il frumento tenero migliore arriva propri dai climi più freddi.
Il frumento tenero è un esaploide, ha cioè sei copie di ogni cromosoma, provenienti dalle tre specie diverse che lo hanno generato.
Provate a pensare a cosa voglia dire avere sei copie di ogni cromosoma, è come se noi (diploidi) invece di averne 46 ne avessimo tre volte tanto, cioè 138: saremmo dei mostri. Mentre il grano tenero non sembra soffrire particolarmente dell’anomalia genetica.
Il frumento tenero quindi, a differenza del frumento duro, non ha un corrispondente selvatico diretto e per questo ha una biodiversità estremamente ridotta. Con i suoi 95.000 geni e il triplo del numero dei cromosomi delle due specie selvatiche di Triticum da cui tutto era partito, è un vero e proprio mostro genetico, certo simpatico come quelli di Monsters&Co, che nel corso della sua evoluzione ha inglobato, con un atto «contro natura», interi genomi di piante non solo di specie diverse ma anche di genere diverso.
Naturale o contro natura?
Nel libro Contro natura abbiamo raccontato questa storia, come molte altre, per mostrare come il concetto di “naturale” sia solo una costruzione culturale. Rassicurante a volte, certo, e per certi versi spesso comoda, ma pur sempre una costruzione umana che semplifica, a volte troppo, la complessità dell’agricoltura. Queste storie servono anche a mostrare come la nostra concezione delle piante che mangiamo sia profondamente semplicistica: siamo un po’ tutti creazionisti e “fissisti” da questo punto di vista, immaginando specie viventi che rimangono fisse e immutabili dal giorno della loro creazione. Le cose in realtà sono più complicate, e l’agricoltura stessa è una storia di geni che girano, si scambiano, mutano, saltano specie, si fondono e così via.
Non conosceremo mai i dettagli dell’unione che ha generato il frumento tenero, ma da qualche parte vicino al Mar Caspio, a fianco di un campo coltivato a farro dicocco vi erano campi incolti dove tra le erbe selvatiche cresceva A. tauschii. Forse questa unione contro natura era già avvenuta altrove in precedenza, ma furono quegli ignoti coltivatori a notare alcune spighe diverse, a prendersene cura e a riprodurle lentamente. Il fatto che in natura non esista il frumento tenero selvatico, che contenga geni di tre specie diverse, e che sin dalla sua genesi sia il frutto dell’intervento umano, che ha poi plasmato il suo genoma nel corso dei millenni per renderlo sempre più utile, ma incapace di sopravvivere autonomamente, dovrebbe far riflettere sulla corsa al «cibo naturale», dove con questo termine si intende, in modo un po’ confuso, un alimento che non ha subito manipolazioni o interventi umani.
Alla prossima
Dario Bressanini
P.S. Questo articolo, così come il frumento, è nato da una fusione di un articolo apparso su Le Scienze n. 552 di Agosto 2014 con il quarto cromosoma (a.k.a. "capitolo") del libro Contro natura, nella cinquina finalista del prestigioso premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica
La “mezzaluna fertile” è la regione che comprende, al giorno d’oggi, Israele, la Giordania, il Libano, la Siria occidentale, parte della Turchia e si estende, tra il Tigri e l’Eufrate, in Iraq e nell’Ovest dell’Iran. Qui, 12.000 anni fa, un piccolo gruppo di uomini ha iniziato a domesticare specie vegetali selvatiche.
Questo processo, relativamente breve, di selezione artificiale ha trasformato il pianeta in un enorme esperimento evoluzionistico di adattamento, selezione e speciazione. Ma ha anche reso le piante dipendenti dall’uomo, capaci di sopravvivere solo se coltivate in condizioni controllate. La domesticazione infatti è uno dei primi atti «contro natura» che la nostra specie abbia compiuto. Domesticare piante e animali selvatici significa privilegiare i caratteri utili all’uomo (come, per esempio, la grandezza di semi e frutti nelle piante o la docilità nel caso degli animali) eliminando quei caratteri che permettono loro di vivere allo stato selvatico. Domesticare, di fatto, vuol dire appiattire la variabilità genetica: per esempio nei vegetali si sono privilegiati i caratteri, e quindi i geni, legati al sapore che l’uomo ritiene gradevole, eliminando i geni responsabili della produzione di sostanze sgradevoli o tossiche che però spesso avevano la funzione di allontanare i parassiti e gli insetti in una sorta di guerra chimica «naturale». Una pianta che non riesce più a sopravvivere in natura è “naturale”?
La famiglia dei grani
La storia dei grani, molte specie diverse del genere Triticum, è affascinante. Tutto ha inizio nella zona montuosa del Karacadag, nel sudest della Turchia con due specie selvatiche, il Triticum boeoticum e il Triticum urartu.
Circa 10.000 anni, i nostri avi domesticarono il T. boeoticum dando vita alla specie che è tornata in auge negli ultimi anni tra gli appassionati di panificazione: il T. monococcum chiamato comunemente farro monococco.
Ben prima dell’invenzione dell’agricoltura, tra i 300.000 e i 500.000 anni fa, l’altra componente selvatica della famiglia dei Triticum, il T.urartu, subiva un evento genetico che, se pensiamo semplicisticamente alle specie viventi come entità immutabili, non sarebbe mai potuto avvenire. Il suo intero genoma si è fuso con quello di una graminacea, un'erbaccia, la Aegilops speltoides, per generare il Triticum dicoccoides o farro selvatico: una nuova specie selvatica che conteneva tutti i geni di entrambi i donatori e il doppio dei loro cromosomi. Questo farro selvatico cresce ancora spontaneo in Israele, Turchia e altri paesi.
La loro è stata una fusione «contro natura», inusuale per due motivi: il primo è che coinvolge membri non solo di due specie diverse, ma addirittura di due generi differenti – come se fosse un incrocio tra un gatto e un cavallo – il secondo è perché A. speltoides dona interamente il suo genoma a T. urartu e non solamente la metà, come in un comune incrocio sessuale tra membri della stessa specie. Dall’unione nasce il farro selvatico o T. dicoccoides, una nuova specie con il doppio dei cromosomi dei genitori. Loro avevano due copie per ogni cromosoma, proprio come noi esseri umani, erano cioè diploidi, mentre lui di copie ne ha quattro per ogni cromosoma, quindi è "tetraploide". Anomalie nel numero di cromosomi negli animali portano generalmente alla morte o allo sviluppo di gravissime malattie, mentre per le piante sono abbastanza comuni. Anzi, in natura questo tipo di modifica genetica genera spesso nuove specie.
La selezione graduale del farro selvatico generò, circa 10.000 anni fa, il Triticum dicoccum, il farro coltivato, il grano principale dell’agricoltura del neolitico. Usato per fare pane e birra, questo farro era il grano dei faraoni e degli antichi romani. Una serie di mutazioni genetiche casuali seguite da selezioni hanno trasformato il farro in altre specie tra cui la più importante per noi italiani è sicuramente il grano duro, il Triticum durum con cui produciamo la pasta.
La nascita di una nuova specie
Circa 8000/9.000 anni fa, nella regione compresa tra l’Armenia e il Sudovest del mar Caspio, avvenne un secondo evento genetico “impossibile”: il T.dicoccum inglobò completamente il genoma di un’altra pianta erbacea, l’Aegilops tauschii, per generare il Triticum spelta, o farro spelta. In seguito, anche se i dettagli sono ancora da definire, una serie di ulteriori modifiche genetiche ha portato al nostro amato Triticum aestivum: il grano tenero con cui facciamo il pane e la pizza. È stato proprio il genoma donato da A.tauschii a migliorare le qualità panificatorie della farina di frumento tenero, e ha anche permesso la coltivazione in climi più freddi e più a nord, tant’è che ancora oggi il frumento tenero migliore arriva propri dai climi più freddi.
Il frumento tenero è un esaploide, ha cioè sei copie di ogni cromosoma, provenienti dalle tre specie diverse che lo hanno generato.
Provate a pensare a cosa voglia dire avere sei copie di ogni cromosoma, è come se noi (diploidi) invece di averne 46 ne avessimo tre volte tanto, cioè 138: saremmo dei mostri. Mentre il grano tenero non sembra soffrire particolarmente dell’anomalia genetica.
Il frumento tenero quindi, a differenza del frumento duro, non ha un corrispondente selvatico diretto e per questo ha una biodiversità estremamente ridotta. Con i suoi 95.000 geni e il triplo del numero dei cromosomi delle due specie selvatiche di Triticum da cui tutto era partito, è un vero e proprio mostro genetico, certo simpatico come quelli di Monsters&Co, che nel corso della sua evoluzione ha inglobato, con un atto «contro natura», interi genomi di piante non solo di specie diverse ma anche di genere diverso.
Naturale o contro natura?
Nel libro Contro natura abbiamo raccontato questa storia, come molte altre, per mostrare come il concetto di “naturale” sia solo una costruzione culturale. Rassicurante a volte, certo, e per certi versi spesso comoda, ma pur sempre una costruzione umana che semplifica, a volte troppo, la complessità dell’agricoltura. Queste storie servono anche a mostrare come la nostra concezione delle piante che mangiamo sia profondamente semplicistica: siamo un po’ tutti creazionisti e “fissisti” da questo punto di vista, immaginando specie viventi che rimangono fisse e immutabili dal giorno della loro creazione. Le cose in realtà sono più complicate, e l’agricoltura stessa è una storia di geni che girano, si scambiano, mutano, saltano specie, si fondono e così via.
Non conosceremo mai i dettagli dell’unione che ha generato il frumento tenero, ma da qualche parte vicino al Mar Caspio, a fianco di un campo coltivato a farro dicocco vi erano campi incolti dove tra le erbe selvatiche cresceva A. tauschii. Forse questa unione contro natura era già avvenuta altrove in precedenza, ma furono quegli ignoti coltivatori a notare alcune spighe diverse, a prendersene cura e a riprodurle lentamente. Il fatto che in natura non esista il frumento tenero selvatico, che contenga geni di tre specie diverse, e che sin dalla sua genesi sia il frutto dell’intervento umano, che ha poi plasmato il suo genoma nel corso dei millenni per renderlo sempre più utile, ma incapace di sopravvivere autonomamente, dovrebbe far riflettere sulla corsa al «cibo naturale», dove con questo termine si intende, in modo un po’ confuso, un alimento che non ha subito manipolazioni o interventi umani.
Alla prossima
Dario Bressanini
P.S. Questo articolo, così come il frumento, è nato da una fusione di un articolo apparso su Le Scienze n. 552 di Agosto 2014 con il quarto cromosoma (a.k.a. "capitolo") del libro Contro natura, nella cinquina finalista del prestigioso premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica