venerdì 26 luglio 2013

da luca morescalchi-cos'è la ricerca



Cos’è la ricerca, davvero

di Massimo Sandal

Un italiano di 29 anni a Cambridge annuncia la sua intenzione di arrendersi alle frustrazioni della vita del ricercatore, e scatena un gran dibattito in rete


Massimo Sandal, 29 anni, laureato in biotecnologie industriali all’Università di Bologna e attualmente ricercatore a Cambridge in Inghilterra – si era parlato del suo lavoro sul morbo di Parkinson tre anni fa – ha scritto dieci giorni fa sul suo blog un lungo post in inglese sulle frustrazioni del lavoro nella ricerca scientifica. Si concludeva con un’annunciata intenzione di “riprendersi la vita” e ha avuto nei giorni seguenti una notevolissima circolazione e discussione in rete (Sandal è tornato sull’inattesa dimensione del dibattito qualche giorno dopo). Il Post gli ha chiesto di spiegare ai profani quali siano le ragioni di tanta sensibilità ai temi della vita dei ricercatori.
Molti guardano la ricerca scientifica dall’esterno, come fosse una torre d’avorio in cui personaggi dal cranio rigonfio di materia grigia discutono con apollinea serenità i misteri dell’universo. Chi vede la cosa da fuori cosa vede? Quando va bene, professori sorridenti che spiegano la nuova (possibile) cura per il cancro, che commentano le ultime foto di Hubble o il riscaldamento globale. L’impressione che danno i media è quella di un mondo di mattacchioni che discutono serenamente di bosoni, scioglimento dei ghiacci e DNA, senza nessun’altra preoccupazione al mondo.
Sono fesserie. Chi fa ricerca giorno dopo giorno non sono i professori (che hanno un ruolo fondamentale, per carità: ma più di guida, networking e fundraising che altro). Sono i giovani: i dottorandi e i cosiddetti “postdoc” (ricercatori post-dottorali, che hanno un titolo di dottorato ma che non lavorano ancora indipendentemente). Costoro, benché anonimi, sono quelli che fanno tutto il lavoro vero e proprio e sono alla base di una piramide, e questo di per sé sarebbe normale (le gerarchie sono ovunque, di operai ce ne sono tanti e di Marchionne uno solo). Il problema è che si tratta di una piramide su cui non puoi mai fermarti: devi scalarla o perire.
Mi spiego meglio. Se io entro in FIAT per fare l’operaio o l’impiegato, è probabile che io possa rimanere in eterno a fare l’operaio o l’impiegato. Nessuno (che io sappia: potrei sbagliarmi) mi obbliga a fare carriera per diventare dirigente. Nella scienza invece tu non puoi rimanere a fare il ricercatore ad libitum.
La carriera funziona così. Quando uno inizia il dottorato, neolaureato, inizia a fare ricerca vera e propria. Fa esperimenti, calcoli, ipotesi, teorie eccetera: tutto quello che ci si aspetta faccia uno scienziato, magari sotto l’occhio vigile di un dottorando più vecchio o di un postdoc.
Alla fine se tutto va bene il nostro dottorando, dopo tre-quattro anni (o anche più fuori dall’Italia) vissuti chiuso in un laboratorio, rinunciando alle serate e ai weekend, grottescamente malpagato, senza la minima rappresentanza professionale a difendere i suoi inesistenti diritti, avrà realizzato un paio di lavori scientificamente dignitosi, e li avrà pubblicati su una rivista scientifica “peer reviewed”.
Se il suo capo non è un totale figlio di buona donna, avrà avuto riconosciuto il suo lavoro con il primo nome nella lista degli autori: una finezza che significa tutto (avere articoli come primo autore è conditio sine qua non per qualsiasi progresso di carriera; uscire dal dottorato senza un “first-author paper” significa una quasi certa condanna a morte accademica. Avere il primo nome significa che il lavoro “è tuo”, gli altri nomi sono collaboratori secondari o supervisori. E no, non esiste nessun meccanismo di controllo: tutto sta alla correttezza del proprio supervisore. Se il tuo supervisore vuole far andare avanti qualcun altro e non te, il primo nome te lo puoi scordare, anche se hai fatto tutto il lavoro da solo. Non capita spessissimo, ma capita).
A questo punto il dottorando, ora dottorato, dovrà fare la via crucis del postdottorato. Ovvero, lavorare per vari anni in 2, 3, 4 laboratori, 2-3 anni alla volta, finché non si sia fatto un curriculum abbastanza robusto per il passo successivo. Ma mentre durante il dottorato viene pagato in qualche modo dall’università, dopo il dottorato è spesso necessario (anche se non sempre: ma nei posti più prestigiosi è pratica comune) reperirsi da soli i fondi per pagare il proprio stipendio.
La competizione per tali fondi è spietata, e diventa sempre più spietata man mano che si prosegue. Il motivo è semplice: le agenzie che danno i fondi (in generale si tratta di agenzie internazionali o nazionali di natura governativa, oppure di fondi privati o derivati da donazioni, come Telethon in Italia, o il Wellcome Trust in Inghilterra) di norma non finanziano più del 20% delle application che ricevono, e spesso ne finanziano intorno al 5%. Inoltre fare tali application comporta un’enorme perdita di tempo: non si tratta semplicemente di inviare un curriculum e una lettera, ma di scrivere papiri di 10-40 pagine in cui devi convincere un panel di revisori su ogni aspetto della tua ricerca, in cui devi limare ogni parola perché il tuo progetto sia realistico, brillante, convincente. Insomma, devi fare marketing: ma invece che con uno slogan lo devi fare con dozzine di pagine di pubblicità. Aggiungete che, per avere delle speranze, devi fare domanda a numerose agenzie alla volta, e capite che circa il 40% del tempo di molti ricercatori è speso soltanto a fare domande di fondi. Ovviamente le possibilità di avere fondi dipendono essenzialmente dal proprio curriculum, ovvero dalle pubblicazioni (specie come primo autore).
Tali fondi, qualora vinti, sono a termine (quasi mai durano più di tre anni, spesso due) e quindi praticamente ogni anno uno fa nuove domande per garantirsi i prossimi due anni di stipendio. Ed ecco che qui arriva il nodo: tutte le agenzie di fondi che danno soldi per postdoc pongono dei limiti di età o di esperienza. In pratica, raggiunti i 35 anni avere una borsa per postdoc inizia a diventare impossibile. C’è solo un’alternativa: sperare di trovare una posizione come ricercatore indipendente, diventare in altre parole un giovane “group leader” e iniziare a coordinare il lavoro altrui.
La competizione a questo punto diventa spaventosa. A essere ottimisti, il 10% dei postdoc può sperare di raggiungere una “tenure track” (ovvero quel percorso in cui sei un group leader “in prova”, per un periodo di solito sui 5 anni). Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo cosa significa quanto detto:
1) La grande maggioranza degli esperimenti scientifici nel mondo è fatta da gente sotto i 35 anni, grottescamente sottopagata (specie in Italia, ma non solo) e priva di qualsiasi riconoscimento di tipo “sindacale”. Nel caso della ricerca i giovani non sono il futuro: sono il presente. La ricerca scientifica mondiale è letteralmente in mano (provette, computer e strumenti) a migliaia di ragazzi che rinunciano a vita, stipendio e carriere lucrose (se un giovane biologo brillante fresco di laurea o dottorato va all’estero e prova a lavorare nell’industria, le chance di trovarsi all’estero a fare il ricercatore nel privato sono piuttosto alte, e il trattamento economico e sociale decisamente più alto) per una passione, senza ricevere quasi nulla in cambio.
2) La ricerca scientifica funziona come un’azienda che sostituisse tutto il suo dipartimento ricerca e sviluppo ogni dieci anni. Non so se questo sia normale, ma mi colpisce sempre: è come se uno buttasse via tutti gli ingegneri in una azienda tecnologica e ne riassumesse di nuovi, neolaureati, ogni 10 anni, a parte i pochissimi che diventano dirigenti.
3) La competizione a livello postdottorale fa sì che, specie nelle istituzioni più prestigiose, si creino facilmente situazioni estremamente tossiche. Scordatevi una platonica torre d’avorio. Significa che la gente sabota regolarmente il lavoro altrui, fa di tutto per accaparrarsi il credito di lavoro a cui ha partecipato poco o nulla, e altro che condivisione delle conoscenze: ognuno tiene i propri progetti praticamente secretati nel terrore che gli vengano rubati dalla concorrenza. Aggiungete il fatto noto che questo conduce sempre piú ricercatori (una piccola minoranza, per fortuna, ma in crescita) a darsi alla frode scientifica pur di sopravvivere: si parte da casi in cui semplicemente si riducono i controlli, o si scopiazzano articoli da una parte all’altra, a storie eclatanti in cui si inventano dati di sana pianta per garantirsi il
successo.
Nota generale: “competitivo” non significa necessariamente “meritocratico”. Spesso le due parole vengono considerate sinonimi. La cosa andrebbe tenuta bene in mente da chi chiede più “competitivita`” nella ricerca italiana. La ricerca italiana dev’essere più meritocratica, non più competitiva. Si compete già, in Italia, solo che non si fa in base al merito.
4) Intorno ai 30-35 anni abbiamo numerose persone con un curriculum buono o anche brillante che hanno fatto scienza tutta la vita e si trovano improvvisamente in mezzo alla strada, “overqualificati” per moltissimi lavori, e viceversa non qualificati per molti altri. Ci sono aziende che hanno come politica esplicita quella di non assumere persone con un dottorato o un postdoc perché ormai troppo slegati dalla “realtà”. Queste persone sono intorno al 70-90% di quelle che hanno iniziato una carriera accademica.
5) Il fatto che tutto giri intorno alle pubblicazioni e alle esigenze delle agenzie di funding, aggiunto al fatto che la ricerca scientifica è sempre una scommessa, fa sì che attualmente la ricerca scientifica sia in una spirale che la rende sempre meno coraggiosa, sempre più applicata e sempre più dipendente dalle politiche delle agenzie. In campio biologico è pressoché impossibile avere fondi se non si hanno chiare e immediate ricadute mediche o industriali della propria ricerca. Charles Darwin oggi non riceverebbe un soldo da un’agenzia di funding. Inoltre, tutti i postdoc tendono a cercare progetti più “sicuri”, a scavarsi piccole nicchie in cui sono certi di ottenere qualcosa, anche di piccolo, invece di tentare di imparare tecniche e discipline nuove, o di dedicarsi a esperimenti più coraggiosi, perché questo è quasi sempre solo un modo per suicidare la propria carriera.
Torniamo al nostro ex-dottorando ed ex-postdoc. Mettiamo che sia stato molto bravo, che abbia sgomitato il dovuto e che abbia vinto una tenure track. Questo cosa gli da? Cinque anni in cui avrà raggiunto l’indipendenza accademica, gestirà un progetto “suo” (purché piaccia a chi gli da i soldi) e in cui magari ha un paio di dottorandi a lavorare per lui. Bellissimo. Peccato che gli serviranno ancora soldi per pagare il laboratorio, la strumentazione, eccetera, e quindi dovrà fare ancora altre domande ad altre agenzie. Lo stesso ciclo di prima, eterno, solo peggiorato: ora la grande maggioranza del suo tempo sarà spesa a fare marketing della ricerca (che il ricercatore guida ma che fanno i suoi dottorandi) e sempre meno alla scienza vera e propria. Inoltre l’università gli fa pressione, perché a questo punto i grant che ottiene servono anche a finanziare il dipartimento stesso, non solo lui. E anche qui, non vincono tutti: una buona metà se ne torna a casa dopo cinque anni. A questo punto il ricercatore ha 40 anni, ha fatto ricerca tutta la vita (anche se negli ultimi 5 ha fatto più che altro fundraising), e maledettamente sovraqualificato e maledettamente troppo vecchio per trovare facilmente lavoro.
Si è mangiato la vita: non ha mai avuto un weekend libero, non si è mai liberato dal suo lavoro (la ricerca è un lavoro che divora, da cui non stacchi mai, a livello mentale), ha subito probabilmente mobbing e scorrettezze da numerosi colleghi, ha forse rinunciato o quantomeno messo in secondo piano famiglia e figli, non ha mai avuto una stabilità economica o geografica (molti ricercatori cambiano Stato 2, 3, 4 volte nella vita, spesso anche di più), ha dovuto conquistare tutto palmo a palmo, per cosa? Per ritrovarsi a 30, 35, 40 anni con in mano un pugno di mosche e qualche oscura pubblicazione, quasi certamente persa in un mare magnum di mille altre.
La torre d’avorio dell’accademia è solo la parte che si vede. Sotto terra, sotto la torre, brulica un sottosuolo di giovani brillanti, fortissimi lavoratori e tenaci sognatori ma il cui futuro è una lotteria, una mera illusione. Ovviamente chi vive nella torre d’avorio (cioè chi ha raggiunto finalmente un posto stabile come professore universitario) ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, o anzi ad aumentare a dismisura il numero di dottorandi e postdottorati: manovalanza a carico dell’università o delle agenzie esterne di funding; cervelli e mani che fanno tutto il reale lavoro di ricerca, e che è sempre sostituibile, pronta a essere buttata via e rimpiazzata nel giro di pochi anni.
Quello che ho raccontato nasce naturalmente dalla mia esperienza; ci sono ovviamente eccezioni e c’è ovviamente il dritto della medaglia. C’è lo stimolo psicologico, ovvero il fatto che spesso chi fa ricerca ha sempre sognato di farla e la cui personalità è in qualche modo dipendente/definita da questa realizzazione professionale. Significa da una parte che spesso è un mestiere a livello psicologico totalizzante, in cui si entra per vocazione spesso fin dall’infanzia, per spirito di conoscenza – e che quindi finisce per definire la tua persona; trovarsi di fronte alle dighe poste sul cammino della ricerca è spesso enormemente frustrante e infine, quando ci si trova costretti a cambiare cammino, la sensazione di aver fallito nella propria vita è ben più profonda di quanto normalmente sia per un altro tipo di carriera. Ma fare scienza è anche  suo modo un mestiere meraviglioso, in cui sai di portare avanti, nel tuo piccolo, la gigantesca impresa dell’umanità di comprendere il mondo in cui vive e, alla fine, te stesso. La libertà intellettuale può essere  inebriante. Forse troppo inebriante: forse gli scienziati riflettono troppo sui loro progetti e troppo poco sul sistema che li mantiene, li porta avanti per qualche anno e alla fine in tanti casi li getta via. Se mi chiedete quali sono le vie di uscita da questo gioco al massacro, io non so dare una risposta. Ma gli scienziati, e la società di cui fanno parte, dovrebbero chiedersi se questo è veramente l’unico modo di mandare avanti la ricerca. Non solo per gli scienziati stessi, ma per tutti.


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