venerdì 14 giugno 2013

da DatilyStorm- stupro come arma di guerra

In questi giorni, in tutta la Rete, si sta diffondendo viralmente un articolo dell’Asian Tribune – del 10 ottobre 2009 – contenente delle immagini shock. Vista la drammaticità della narrazione, la vividezza delle foto e la datazione della news, ecco una rivisitazione di quell’articolo. Sia per tradurne i contenuti in lingua italiana e riportarne fedelmente le immagini – facilitando la comprensione tanto della storia, documentata, che del clamore che suscitarono le foto, intercettate erroneamente da un sito pornografico -, che per contestualizzarlo meglio, dal momento che sono stati diversi i fraintendimenti e i dubbi sollevati, a cominciare dalla credenza che fossero avvenimenti recenti. Sono state ricercate e indicate le opportune fonti, che ci sono. Il tutto per fornire un’adeguata cornice interpretativa ai fatti di allora, consapevoli che certamente la situazione sugli attuali scenari di conflitto, nel frattempo, non è cambiata. E, appunto, per non dimenticare mai le atrocità condotte in guerra dai soldati americani, la mancanza di rispetto verso la persona umana in ogni guerra e le responsabilità della politica nella censura delle informazioni. Obama compreso, in questo caso.
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Una gruppo di soldati ha violentato una ragazza di 14 anni – Abeer Qasim Hamza al-Janabi - e ucciso lei e la sua famiglia, compreso un bambino di 5 anni. Questa tragedia passerà alla storia – col nome di Mahmudiyah killings - come uno dei crimini di guerra più efferati della storia degli Stati Uniti d’America. E varrà come testimonianza indiscutibile del lato più brutale ed inumano della politica estera a stelle e strisce: quella dello stupro come arma di umiliazione, di intimidazione, di guerra.
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Uno degli assassini, Steven Green, è stato giudicato colpevole il 21 Maggio 2009 presso la Corte Distrettuale di Paducah e condannato al carcere a vita. Quanto trapelato dal Public Affairs Guidance ha messo l’ufficio stampa della 101ma Airborn Division in una “posizione passiva”, mantenendo nascoste diverse informazioni dove possibile. Ha così omesso la presenza di bambini tra le vittime, oltre ad aver descritto la vittima dello stupro, che aveva appena compiuto 14 anni, come una “giovane donna”. A seguito della reazione indignata del mondo intero – e della conseguente sete di giustizia – l’avvocato difensore di Green, Darren Woff, poco prima della sentenza, ebbe persino il coraggio di mettere sull’attenti la Corte: «L’opinione pubblica internazionale non dovrebbe essere rilevante per il perseguimento della giustizia»
La pubblicazione, da parte della CBS News, di fotografie raffiguranti atroci abusi sessuali e torture sui prigionieri di guerra iracheni all’interno della nota prigione di Abu Ghraib (in Iraq, ndr), «ha scoperchiato un vaso di Pandora per l’amministrazione Bush», come ha scritto Ernesto Cienfuegos su La Voz de Aztlan, il 2 maggio del 2004.
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Il brigadiere generale Karpinski, che era a capo dell’800ma Brigata della Polizia Militare, ha parlato di una fortissima pressione da parte dell’Intelligence militare e della CIA, volta a premiare gli interrogatori che si concludevano con delle confessioni. Un mese prima che i presunti abusi e stupri avvenissero, ha dichiarato, una squadra di ufficiali della CIA e dell’Intelligence ,e alcuni consulenti privati impiegati dal governo statunitense, si erano recati ad Abu Ghraib. «La loro principale e specifica missione era dare agli interroganti nuove tecniche per ottenere più informazioni dai detenuti».
Almeno una tra le fotografie mostrerebbe un soldato americano mentre violenta una prigioniera, e un’altra raffigurerebbe un traduttore nell’atto di violentare un detenuto. Altre foto riporterebbero abusi sessuali perpetrati sui prigionieri mediante oggetti, tra cui un manganello, un cavo elettrico e un tubo fosforescente. Un’altra mostrerebbe una prigioniera spogliata a forza, per costringerla ad esporre il seno. Dettagli sui contenuti sono emersi dalle parole del Generale maggiore Antonio Taguba, ex-ufficiale dell’esercito, che ha condotto un’inchiesta sul carcere iracheno di Abu Ghraib. Accuse di stupro e abusi sono state incluse nel suo rapporto del 2004, ma il fatto che vi fossero delle fotografie non è mai stato rivelato. Più tardi, egli stesso ha confermato la loro esistenza in un’intervista del 27 maggio 2009 al Daily Telegraph.
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Il giornale londinese ha inoltre scritto che «la natura grafica di alcune immagini potrebbe spiegare i tentativi del presidente americano Obama di bloccare l’uscita di 2000 fotografie provenienti da prigioni in Iraq e Afghanistan, nonostante una sua precedente promessa di consentirne la pubblicazione». Non a caso, inizialmente l’amministrazione Obama dichiarò di rilasciare senza troppe remore le foto. Ma dopo aver subito pressioni costanti da parte di alti funzionari militari, Obama cambiò idea: «La conseguenza più diretta del loro rilascio, credo, sarebbe quello di infiammare l’opinione pubblica anti-americana e di mettere le nostre truppe in maggior pericolo». La solita scusa della sicurezza, trita e ritrita. Già nota alle cronache per i vari casi “Manning”, in cui alla verità oggettiva proposta da un eroe, si è preferito porre l’accento sulla sicurezza nazionale. Come se a doverla preservare fossero giornalisti e whistleblower, e non i governi stessi.
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Il Panopticon di Bentham, dove un unico secondino controllava dal centro tutti i prigionieri, è spodestato da Abu Ghraib, dove i secondini si fotografano tra di loro con i fototelefonini. Alla lineare visione di Foucault e dei suoi seguaci di un potere accentrato e opaco che osserva e che non si fa osservare da nessuno, si sostituisce un potere decentrato e narcisista che si immortala con l’autoscatto e si fa mandare in onda.
(Vittorio Mathieu, Conflitto e narrazione, p. 176)
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[Fonti: Asian Tribune, Time U.S., La Voz de Atlan, The Guardian]
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Federico Sbandi (@FedericoSbandi)
Traduzione a cura di Beatrice Di Pietrantonio
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